domenica 26 maggio 2013

E dalli con l'odio anti-israeliano dei 5Stelle

Qui
Condito di un'ignoranza storica da analfabeti di ritorno.

venerdì 24 maggio 2013

Asportazione preventiva degli organi, la resa della medicina


Dopo il caso di Angelina Jolie ecco quello di un cinquantenne inglese che si è fatto asportare preventivamente la prostata avendo scoperto di essere portatore del gene difettoso BRCA2. Chi difende questo andazzo fa appello al severo monito delle certezze scientifiche. Ma la scienza offre raramente certezze e il vero spirito scientifico è soprattutto una pratica del dubbio critico. Quando, da studente, chiesi a un noto matematico consigli sul modo migliore di studiare mi rispose: «Tenti di dimostrare in tutti i modi che quel che legge o le viene detto è falso». Le certezze sono un materiale altamente pericoloso. Nel campo medico, i casi in cui uno stato genetico implica con certezza il prodursi di una malattia sono pochissimi. Per il resto, si possono fare solo stime di probabilità e il calcolo delle probabilità è una delle scienze più irte di trabocchetti.
È evidente a chiunque che, se lancio una moneta non truccata, la probabilità che esca testa (o croce) è il 50%, anche se, nella realtà, la moneta potrebbe spaccarsi o restare in bilico. È una stima basata sul ragionamento, che trova conferma solo dopo migliaia di lanci, quando il numero di teste o croci è quasi uguale. Ma le situazioni non sono quasi mai così semplici e la determinazione delle probabilità di contrarre il cancro perché si è portatori del gene BRCA1 o BRCA2 è ben più complicata. La difficoltà con le probabilità ricavate da dati empirici è che si basano su campioni che debbono essere rappresentativi della popolazione globale. Nel nostro caso, l’unico modo attendibile sarebbe di fare uno “screening” genetico su un campione numeroso e ben miscelato di individui sani e seguire negli anni l’evoluzione della loro salute. Poiché questo è praticamente impossibile si procede stimando quanti tra i malati sono portatori del difetto genetico. Pur ammettendo che i campioni di malati siano rappresentativi, non lo sono della popolazione totale. Se anche si scoprisse che un terzo di questi malati è geneticamente difettoso, non si può escludere che lo sia anche un terzo o più della popolazione totale (inclusi quindi coloro che non contrarranno la malattia). Se poi – stando alle dichiarazioni degli oncologi – le percentuali sono nettamente più basse, parlare di interventi chirurgici preventivi è a dir poco avventato. Dal punto di vista scientifico si tratta di correlazioni troppo deboli per determinare scelte di vita di enorme portata. Una visione seria dovrebbe considerare assieme tutti gli altri fattori di malattia per non dire il rischio di finire sotto un’automobile o di morire di infarto per un dispiacere. Eliminarli tutti –unico atto davvero scientifico – equivarebbe a decidere di non vivere. Comunque, una donna che proceda alla mastectomia o un uomo alla prostatectomia, preventivamente e non per malattia conclamata, potrebbero non ammalarsi mai; o forse si ammaleranno, ma non essendosi negata la possibilità di avere figli e di vivere una vita piena, invece di mutilarla in omaggio a un dubbio calcolo di probabilità.
I dissesti sociali e psicologici derivanti da un simile approccio sono evidenti e si legano a un male delle nostre società: la considerazione della malattie, e soprattutto delle malattie mortali, come eventi terrificanti e vergognosi da sopprimere con ogni mezzo, nell’illusione che possano essere cancellati del tutto dal panorama della vita umana.
Tutto ciò conduce al tema dello statuto della medicina. Un tempo essa si limitava a una funzione meramente palliativa nei confronti di colui che si rivolgeva al medico “sentendosi” malato. L’enorme progresso della medicina scientifica è di aver costruito gli strumenti per analizzare oggettivamente la malattia, non solo per curarla più efficacemente ma per scoprire la sua presenza ai primi stadi in cui il malato “non sa di esserlo”. Il passo successivo ha messo in gioco la prevenzione e l’obbiettivo più ambizioso: scoprire il “potenziale malato inconsapevole”. La prevenzione è il tema più importante di tutti. Esso riguarda la relazione tra malattie e stili di vita e richiede un grande impegno per la complessità dei problemi in gioco. Il secondo è assai più problematico: non solo perché è avventato ridurre a tutto a cause genetiche, o anche considerarle preponderanti, ma per la leggerezza con cui si pretende di fare previsioni esatte in un campo come quello biologico enormemente più complesso di altri ambiti in cui pure la previsione affanna. Sarebbe una perdita drammatica se un’attività complessa come la medicina – che mette in gioco tecnica, scienza e molte altre conoscenze e “arti” – perdesse il nucleo della sua ricchezza, la clinica, per ridursi a un dipartimento della genetica. La medicina ha in primo luogo come oggetto le persone, e non particelle materiali determinate da leggi cieche. E le persone vanno pensate nella loro individualità soggettiva che rappresenta ciascuna un caso a sé stante che coinvolge una molteplicità di aspetti di cui quello genetico è solo uno, e forse neppure il più importante.

(Il Messaggero, 23 maggio 2013)

domenica 19 maggio 2013

QUESTO E' L'APPELLO INTERNAZIONALE CONTRO LA BIBLIOMETRIA

Un appello che si può firmare.
E, insisto, sarebbe ora interessante sapere cosa hanno da dire l'Anvur e tutti i vari don Ferrante delle valutazioni numerologiche.

venerdì 17 maggio 2013

IMPACT FACTOR

Desidero ringraziare il lettore che ha segnalato questo editoriale della rivista Science sulle distorsioni dell'Impact Factor.
Ed ora cosa diranno gli "anvuriani" e tutta la banda dei valutatori quantitativi? Che anche l'editor-in-chief di Science è un nemico della valutazione e della scienza?...

lunedì 13 maggio 2013

ANALFABETISMO


Sul Corriere della Sera di oggi il Direttore generale della Fondazione Collegio delle Università Milanesi, Stefano Blanco, scrive in difesa delle valutazioni numeriche (in particolare i test Invalsi). Oserva che, al rifiuto di farsi valutare «si affianca un atavico (?) scetticismo, se non, in taluni casi, analfabetismo per i numeri e quindi per ogni metrica di misurazione». Ci guardiamo bene dal chiedere al Direttore di imbarcarsi nella missione impossibile di spiegare un'espressione insensata come «metrica di misurazione». Anzi, è l'occasione per dirci totalmente d'accordo con lui quando parla di analfabetismo numerico e – aggiungiamo – anche linguistico. 

mercoledì 8 maggio 2013

Dal feudalesimo all'impero


Il carattere circolare del pensiero umano è dimostrato dalla comparsa di idee in cui genialità e idiozia si confondono. Tale è quella di valutare la produzione scientifica senza leggerla. L’idea chiave di tale trovata straordinaria è di contare le citazioni degli articoli. Il buon senso dice che si cita anche per ragioni estranee al valore del testo citato: per servilismo, per appartenenza di gruppo, o per screditare. La sociologia delle citazioni è nata proprio per dimostrare il carattere soggettivo di tale pratica. In spregio dell’evidenza, essa è stata rovesciata per farne un metodo “scientifico”: la “bibliometria”, basata su parametri (h-index, impact factor) che indicherebbero la qualità delle pubblicazioni scientifiche e delle riviste che le ospitano. Ci vorrebbe molto spazio per descrivere questa pseudoscienza, spesso praticata da chi non ha più nulla da dire nel proprio campo; e per descrivere le dure critiche che hanno mostrato come tale sistema automatico non solo sia pieno di falle, ma incentivi le truffe, la creazione di cordate accademiche e il conservatorismo intellettuale. Difatti, chi sarà tanto sciocco da pubblicare in una rivista con una bassa quotazione? O si lancerà in ricerche innovative ignorate dalle correnti dominanti?
Sta di fatto che in nessun paese al mondo la “bibliometria” è un sistema di stato per valutare la ricerca e promuovere gli avanzamenti di carriera: è usato localmente (in vari modi) da certe istituzioni, da altre no. L’Italia, arrivata per ultima, ha messo in campo la tendenza inveterata a introdurre statalismo e dirigismo burocratico ovunque sia possibile, costruendo una valutazione di stato in mano a un’agenzia di stato, l’Anvur. Il carattere universale del sistema ha posto però il problema che la bibliometria viene fatta da ditte private statunitensi per il solo settore delle scienze matematiche e naturali. I settori umanistici si sono ribellati a un sistema che avrebbe considerata inesistente la loro produzione. Così, è stato inventato per loro un sistema ad hoc, classificando le riviste in tre categorie, A, B, C. Tale classifica l’hanno fatta apposite commissioni, con risultati sorprendenti, talora evidentemente assurdi e fonte di ricorsi legali. I paladini di questo sistema accusano chi protesta di non accettare la “meritocrazia”e proclamano che l’intento è di superare, con giudizi “oggettivi”, gli arbitri con cui nelle commissioni si facevano accordi indecenti. Già, ma in cambio si è offerta alle cordate accademiche un’opportunità ben più allettante. Difatti, chi riesce a piazzare le riviste “sue” (o di amici) in serie A o si impossessa delle riviste “migliori”, controlla il processo di reclutamento dei giovani in modo totale e senza neanche la fatica di telefonare per costruire accordi e contrattare scambi. D’ora in poi, chi vuole andare avanti in un certo settore sa che, se non pubblica sulle riviste di chi comanda, è fuori gioco. È il passaggio dal feudalismo alla monarchia e, in certi casi, all’impero.
Cosa fare? Tornare al buon senso e rinunciare all’obbiettivo di mettere le braghe al mondo. Le pubblicazioni si valutano solo leggendole. Se sono troppe, basta chiedere ai candidati di indicarne una decina che ritengono rappresentative della qualità della loro ricerca.
(Il Giornale 8 maggio 2013)

domenica 5 maggio 2013

giovedì 2 maggio 2013

LETTERA APERTA AL MINISTRO CARROZZA


Gentile Ministro,
in primo luogo molti auguri. Ne ha davvero bisogno chi si accinge a governare un ministero (doppio) che, di solito, non viene menzionato tra quelli pesanti ma che è, al contrario, uno dei più strategici e difficili. È strategico perché si parla continuamente della centralità dell’istruzione nella “società della conoscenza” e poi la si tratta come l’ultimo dei problemi, o la si considera in termini meramente economici e occupazionali. È difficile non solo per la congerie dei problemi che si sono accumulati in anni di uso strumentale dell’istituzione, come ammortizzatore sociale, bacino elettorale, terreno di sperimentazioni di teorie cervellotiche e di riforme mal fatte o stravolte. Ma anche perché qui si manifesta, forse più che altrove, un male giustamente indicato giorni fa da Osvaldo De Paolini sul Messaggero: la difficoltà di «varare norme applicabili subito, senza che ci si debba perdere nel labirinto dei regolamenti attuativi, dominio assoluto di una burocrazia parassitaria che pensa soltanto a perpetuare se stessa».
Si parva licet, ho sperimentato una siffatta esperienza con il progetto dei TFA (Tirocini Formativi Attivi) che contribuii a varare con un’autorevole commissione e che arrivò a destinazione completamente stravolto nello spirito e nella lettera. E tutti sanno quale scempio hanno fatto i decreti attuativi della riforma universitaria, qualsiasi cosa se ne pensi. Il minimo che si possa dire è che l’intento tanto declamato che fosse necessario costruire un sistema di verifica e valutazione a valle si è trasformato in un sistema di verifica e valutazione a monte, di una rigidità che non ha uguali in alcun paese al mondo.
Il primo augurio che le si deve quindi fare è che riesca a esercitare pienamente la sua funzione di ministro, e a non farsi ridurre al ruolo di “re Travicello” dal prepotere di una burocrazia e di una dirigenza che ha sempre detto, neanche sottovoce, che “i ministri passano e noi restiamo”; e da enti cui è stato dato un ruolo smisurato e fuori controllo come l’Anvur, l’Invalsi e l’Indire. Quando si legge, sulle pagine di questo giornale, un’intervista al Commissario dell’Invalsi in cui si fanno proposte e si indicano soluzioni per l’esame di maturità ci si chiede: a che punto siamo arrivati? Non è il ministro e la politica, il parlamento, che dovrebbero proporre e disporre, mentre l’intendenza dovrebbe seguire ed eseguire? Qui siamo ridotti al contrario. Non è quindi strano che, in un’opinione pubblica esasperata da un modo di governare poco trasparente, le poche istituzioni che conservino un prestigio elevato siano i carabinieri e la polizia, usi a obbedir tacendo, poiché ancora non si è dato il caso che neppure un altissimo ufficiale di quei corpi si sia presa la libertà di indicare pubblicamente al ministro dell’Interno quali scelte fare in tema di ordine pubblico.
I problemi che lei dovrà affrontare sono tanti e tali che non potrebbero essere seriamente elencati e discussi in un pezzo giornalistico. Mi limiterò a un tema generale che desumo da una sua confortante e, per me, totalmente condivisibile dichiarazione che spero di riportare fedelmente:
«Per rendere il sistema meno soggetto a problemi di corruzione e localismo nel corso degli anni è stato impostato un sistema di selezione che tende a inserire rendicontazioni, controlli e utilizzo di indicatori numerici. Il fine è rendere meno soggettivo e più automatico possibile il processo di selezione sia nel campo del finanziamento alla ricerca che nel reclutamento dei ricercatori. Sembra una lotta fra il bene e il male ed è come se rendere il processo di scelta automatico e basato sui soli numeri ci salvasse dalla tentazione dei decisori di manipolare il sistema. Il risultato è che abbiamo messo in piedi un sistema involuto e farraginoso, ed abbiamo perso l’obiettivo primario di combattere le manipolazioni. Abbiamo perso anche la finalità di diffondere un’etica pubblica basata sulla reputazione e sulla responsabilità personale di cui l’Italia ha un gran bisogno».
Ecco, vorrei partire da queste ultime parole che, senza esagerazione, hanno aperto il cuore a molti: «etica pubblica basata sulla reputazione e sulla responsabilità personale». Finalmente sentiamo parlare di “persone” e di “responsabilità personale”, dopo che per anni si è prospettato come unico modo di valutare il comportamento degli attori principali della scuola e dell’università – insegnanti e ricercatori – con determinazioni automatiche, macchinali, pretesamente “oggettive”, basate su parametri numerici e che, deliberatamente, fanno astrazione della specificità delle persone, e pretendono di trasformare qualità e contenuti in numeri.
Da anni si ripete la stessa canzone: “chi si oppone a indicatori numerici, test, tabelle, certificazioni, ecc. non vuole la valutazione, non vuole essere valutato perché vuol fare il comodo suo”. È una canzone falsa e ricattatoria, perché non volere un certo tipo di valutazione non vuol dire che non si voglia alcuna valutazione. Naturalmente c’è chi ragiona così – nullafacenti e corrotti esistono nel sistema dell’istruzione e della ricerca come ovunque – ma questo non autorizza a coglierlo come pretesto per imporre sistemi insensati che hanno come unico esito di trasformare l’insegnante in un burocrate, in una macchina soggetta alle prescrizioni di enti e soggetti sottratti ad ogni controllo e valutazione.
Quest’anno, quando ho iniziato il mio corso, un collega mi ha chiesto se mi “disturbava” che venisse a sentirmi. Ho considerato che la sola ipotesi di una risposta affermativa sarebbe stata scandalosa e, d’altra parte, ho sentito che questa presenza rappresentava un “controllo”, uno stimolo pressante a fare il massimo e, in definitiva, era un’occasione da cogliere, che avrebbe potuto far bene alla qualità delle mie lezioni. Ho accettato questo (e accetterei valutazioni scritta di un collega), ma avrei respinto recisamente una valutazione fatta da esterni, magari da una equipe di statistici o di “economisti della scuola” (la nuova moda dilagante) sulla base di questionari, schede di valutazione degli studenti a base di domande cui è impossibile dare una risposta sensata a quel livello di maturità, o di parametri quantitativi. Nel campo della ricerca scientifica interi settori, come quello della storia delle discipline scientifiche, si stanno inabissando in quanto inesistenti dal punto di vista dei parametri messi in opera in modo cieco e sconsiderato dall’Anvur, il quale nella sua furia dirigistica pretende persino di valutare università, corsi e docenti attraverso la valutazione (ovviamente automatica, a test e parametri vari) degli apprendimenti degli studenti, oltretutto annullando di fatto l’autonomia universitaria.
È quindi su questo tema centrale della valutazione che vorrei attirare la sua attenzione, nella consapevolezza che esso è all’origine di un profondissimo disagio nel mondo dell’istruzione e della ricerca. E qui vorrei pregarla di non vedere questa questione a livelli separati: università, ricerca, scuola. La questione è unica e unica è la via sbagliata su cui ci stiamo incamminando. Anvur, Invalsi e Indire sono l’unica faccia di un’unica scelta. L’Anvur, che doveva organizzare la valutazione ex post del sistema dell’università e della ricerca, ha predeterminato i criteri di valutazione per l’abilitazione dei docenti universitari e delle commissioni giudicanti, sulla base di parametri numerici a dir poco discutibili (e in vari paesi proscritti), e ora pretende, come si è detto, di governare ogni aspetto di quelle istituzioni. L’Invalsi sta passando dalla funzione di valutazione del sistema dell’istruzione a quello di valutazione diretta degli studenti, con discutibilissimi apparati di test, sottraendo sempre di più questa funzione agli insegnanti, e introducendo la disgraziata tendenza al “teaching to the test”, e creando la moda della didattica a quiz, con la risposta “chiusa” a caselle o su poche righe tratteggiate. Come genitori, assistiamo sconcertati e impotenti a tale deriva che disabitua i nostri figli alla lettura di più di mezza pagina, alla riflessione complessa, al ragionamento dispiegato, al fraseggiare che vada oltre i singulti espressivi, che induce a incasellare tutto in schemini stereotipati. Si straparla di migliorare gli apprendimenti della matematica e invece si diffonde una matematica sempre più calcolistica, arida, definitoria, enigmistica, che non può non suscitare ripulsa. Nella commissione che ho citato all’inizio, si erano progettate lauree specifiche per la formazione degli insegnanti il cui affossamento, assieme allo stravolgimento dei TFA, prelude al passaggio del sistema della formazione degli insegnanti a un organismo burocratico come l’Indire, sottraendolo all’unico soggetto culturalmente sensato: la collaborazione tra scuola e università.
Nessuna persona seria e onesta che lavori nel sistema dell’istruzione può rifiutare la valutazione, ma un serio sistema di valutazione non può che nascere come processo culturale di miglioramento all’interno dell’istituzione attraverso il confronto e il controllo reciproco. Questo significa che un sistema di valutazione serio ha senso soltanto come sistema di ispezioni interno all’istituzione e non governato dall’esterno da organismi irresponsabili, sottratti a ogni valutazione e controllo. Tanto più se questi organismi procedono sulla base di quei sistemi basati su indicatori numerici – il che è peraltro spesso reso inevitabile dal fatto che i “valutatori” sono per lo più statistici o economisti della scuola che magari non hanno mai messo piede in un’aula e non hanno alcuna competenza disciplinare.
Ogni azione sull’istruzione e sulla ricerca che non metta al centro le persone, la cultura, la conoscenza, è profondamente sbagliata e pericolosa.
Basterebbe una sola osservazione a mostrare quanto la via che si è presa sia opaca e avventata. In questi anni, da parte di chi si oppone a questa ossessione burocratico-numerica falsamente “oggettivista” sono stati prodotti argomenti a non finire, documenti, analisi che molto spesso provengono dall’estero e fanno riferimento a sperimentazioni già fatte e agli esiti disastrosi che hanno avuto. Non sto a fare qui l’elenco di questi documenti che spaziano dal campo dell’uso rovinoso di indicatori numeri quali l’impact factor e il citation index nella ricerca, ai pessimi esiti dei sistemi di valutazione mediante test nella scuola che hanno fatto passare per un “successo” autentici disastri come l’insegnamento della matematica in Finlandia. Mi limito a ricordare che un’autorità come Diane Ravitch, principale consigliere di Bill Clinton e protagonista delle riforme statunitensi basate su test, accountability e competenze (mettendo in secondo piano conoscenze e curricula) ha scritto un libro di profonda e radicale revisione autocritica (The Death and Life of the Great American School System), sostenendo che al primo posto occorre rimettere conoscenze e curricula e che «una persona ben istruita ha una mente ben riempita di conoscenze, formata dalla lettura e dal pensiero sulla storia, la scienza, la letteratura, le arti, la politica. Una persona ben istruita ha appreso come spiegare le idee e ad ascoltare rispettosamente gli altri».
Lei non pensa signor Ministro che tutte queste problematiche meriterebbero una riflessione pubblica approfondita e che, soltanto dopo tale riflessione, la politica dovrebbe scegliere la strada da seguire e imporla all’intendenza? Invece finora qualsiasi obiezione è stata accolta senza risposta di merito, con una scrollata di spalle, e trattata sprezzantemente come frutto di una minoranza di agitati e di fanatici. Se si interrompe questo andazzo il proposito di “ridare dignità alla funzione dell’insegnante” diventa uno slogan vuoto.
Da ulteriore speranza la sua affermazione che occorre procedere con cautela con l’agenda digitale, non facendone la priorità assoluta. Sia chiaro nessuno vuole intralciare il progresso. Ma la tecnologia non è il toccasana di per sé e, anche qui, i metodi non possono venire avanti ai contenuti. Non si può andare avanti a tappe forzate verso i libri digitali senza preoccuparsi minimamente di come verranno strutturati in termini di contenuti, di come introdurre una formazione culturale di qualità con i nuovi sistemi. Sappiamo bene che attorno a tale agenda vi sono potenti interessi economici, e anche affaristici, ma il primo compito della politica in un momento in cui si straparla di giovani, è di mettere avanti a tutto l’esigenza di formare nuove generazioni seriamente preparate ai massimi livelli. La determinazione degli strumenti più adeguati viene di conseguenza.
Gentile Ministro, restituisca la speranza che finalmente cultura, conoscenza, scienza ritornino ad essere il centro gravitazionale del sistema dell’istruzione e della ricerca.
(Il Sussidiario, 2 maggio 2013)