sabato 25 febbraio 2012

La rivincita della luce

Si è scoperto che il famoso esperimento del settembre 2011 da cui risultava che i neutrini sono più veloci della luce aveva un “baco”. Per un difettoso collegamento in fibra ottica tra un’unità GPS e un computer i dati arrivavano con una velocità alterata proprio della differenza temporale che aveva indotto alla conclusione sensazionale che la teoria di Einstein era in crisi.
A settembre scrivemmo sul Giornale che non era in discussione la serietà del gruppo di ricerca che aveva condotto l’esperimento. Ancor meno lo è ora che si è affrettato a informare dell’esito dei controlli. Tuttavia, s’impongono alcune riflessioni.
La prima riguarda il comportamento del mondo dell’informazione: non i giornali in sé, che non potevano non dar conto di una notizia tanto clamorosa, quanto l’inutile spargimento d’inchiostro del nutrito stuolo di commentatori che si sono lanciati a testa bassa a discettare della “crisi” della teoria della relatività e a disegnare gli scenari futuri, invece di invitare alla prudenza.
La seconda riguarda gli scienziati. È penoso rileggere i testi o rivedere le immagini di interviste improntate a un tono trionfalistico che rivendicava la solidità di un esperimento preparato in due anni e mezzo. Alla luce dei fatti, è stata più saggia la scelta dei 30 “dissidenti” che non vollero firmare il “preprint” invitando alla procedura tradizionale consistente nel sottoporre il risultato alla valutazione di una rivista scientifica.
Tuttavia, proprio in quelle interviste si trova la chiave per comprendere le ragioni di un comportamento affrettato. Difatti, esse terminavano quasi tutte deprecando i tagli ai fondi per la ricerca e chiedendo maggiori finanziamenti. Il problema è che il mondo scientifico è preso alla gola non tanto dai tagli quanto dalla prassi dei finanziamenti. Se non produci risultati sul breve periodo perdi quattrini e in definitiva vieni messo fuori gioco. Ma produrre risultati sul breve periodo spinge alla fretta, all’approssimazione, alla ricerca del risultato facile e clamoroso, e quindi all’insofferenza nei confronti dei tempi lunghi del giudizio motivato dei colleghi. Così, si preferisce la politica dell’annuncio alla stampa.
È in voga un criterio di valutazione dei ricercatori o dei gruppi di ricerca secondo la «capacità di attrarre finanziamenti per la ricerca», il quale è stato sciaguratamente introdotto anche nelle procedure di valutazione della ricerca nel nostro paese. Esso spinge agli annunci mediatici clamorosi, nella speranza di ottenere quattrini per poi attrarne altri. Anni fa esplose l’annuncio della scoperta di un vaccino per l’Aids. Non se n’è saputo più nulla, ma è probabile che l’annuncio sia servito a ottenere finanziamenti. Quel criterio, oltre a stimolare atteggiamenti sbagliati, a corrompere la qualità della ricerca (e sperperare risorse), favorisce la sclerotizzazione del sistema: chi ha più quattrini ha maggiore possibilità di farsi sentire, e quindi di attirare altro denaro e così via in un circolo vizioso che chiude il mondo della ricerca a nuovi apporti.
Infine, esso favorisce chi fa ricerca sperimentale rispetto a chi fa ricerca teorica e ha bisogno di minori risorse, e quindi “vale di meno”. Oggi, non solo le scienze umane, ma tutta la ricerca di base è svalutata, se non svillaneggiata, come roba inutile, una forma di parassitismo. In questo andazzo ha un ruolo pesante Confindustria, che spinge con tutte le forze per favorire gli approcci direttamente applicati, anche a livello della formazione scolastica. È un indirizzo disastroso perché la ricerca applicata che non sia continuamente alimentata da quella teorica rischia di perdersi e di finire nell’irrilevanza. Vale più che mai il detto di Leonardo da Vinci: «Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». C’è chi crede – o vuol far credere – che la teoria della relatività di Einstein sia nata da esperimenti, mentre è nata da riflessioni puramente teoriche, come tutte le grandi scoperte scientifiche, che soltanto in seguito si sono confrontate con la verifica sperimentale. Oggi si fa credere che la scienza teorica sia una perdita di tempo e uno spreco di risorse. Intanto, la teoria della relatività – costruita col pensiero, la carta e la penna – resiste solida come una roccia. Oggi, il suo creatore verrebbe messo all’angolo come incapace di «attrarre finanziamenti».
(Il Giornale, 24 febbraio 2012)

martedì 21 febbraio 2012

UN ARTICOLO DEL SEN. LUIGI COMPAGNA SULL'ANVUR


Anche all'università italiana è in arrivo La Corazzata Potemkin, cioè una "boiata pazzesca", per dirla col ragioniere Ugo Fantozzi. Si tratta dell'ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca) prevista nella legge di riforma di un anno e mezzo fa ed ora autocollocatasi nel cuore di ogni preesistente libertà di ricerca.
Sessantamila docenti italiani, nonché tutti i loro dipartimenti ed atenei, dovranno essere quanto prima valutati e classificati in base ai criteri fissati dalla nuova Agenzia. Tutto si svolgerà secondo una raggelante tecnica quantitativa (numero di pagine di uno scritto, rimbalzi in altri scritti tramite citazioni, riviste e case editrici che lo pubblicano e via dicendo). Tecnica ipocrita ed ingannevole che, tanto nell'abito cosiddetto scientifico quanto nell'ambito cosiddetto umanistico, ha sempre ispirato una abdicazione dalle responsabilità individuali e prodotto vere e proprie forme di corruzione della probità scientifica.
Si pensi alla vicenda del matematico italiano Ennio De Giorgi, colui che fece meglio di John Nash, il memorabile protagonista del film Beautiful mind. Il lavoro di De Giorgi, pubblicato in italiano nel 1957 dall'Accademia della Scienze di Torino, in base alla dittatura dei parametri bibliometrici, non consentirebbe all'autore di essere preso in considerazione neanche come professore di seconda fascia nelle nostre università.
E si ricordi pure il caso "filosofico" di Karl Popper in Italia. Su di lui e sulle sue opere pesava fin dall'immediato dopoguerra il veto dell'editorone Einaudi e del professorone Norberto Bobbio; sarebbero stati poi alla metà degli anni settanta una piccola casa editrice (Armando) ed un allora giovanissimo professorino (Dario Antiseri) a non farsi condizionare da quel veto.
Al fianco dei nuovi sacerdoti della bibliometria, ispirati, quasi come i cardinali in conclave, dallo Spirito Santo del sapere, operano in questi giorni in Italia le imprese che questi meccanismi di finta obbiettività hanno inventato e producono. Si mira ad una sorta di mercato ad hoc, esclusivo ed autoreferenziale di editoria accademica lontano da ogni effettiva garanzia di competizione e di libertà. Con l'ANVUR nella parte di un enorme costosissimo apparato centrale irresponsabile e introvabile, capace di far valere comunque un rapporto fra libertà di ricerca e organizzazione accademica degno dei peggiori modelli di democrazia popolare.
Se fossimo al cinema, sarebbe La Corazzata Potemkin contro Beautiful mind. Bruttissimo spettacolo: neanche immaginabile quando, prima dell'estate scorsa, il CUN (Consiglio universitario nazionale) aveva deliberato che "in ogni caso nessun parametro quantitativo potrà impedire un positivo giudizio di merito a fronte di risultati di assoluto valore". Come a suo tempo per De Giorgi e Antiseri, come mai più l'ANVUR vorrebbe accadesse: in omaggio a parametri di vil meccanica!
                                                                            Luigi Compagna

(Il Tempo, 17 febbraio 2012)
Vedi anche l'interrogazione al Ministro:
http://parlamento.openpolis.it/atto/documento/id/75992


venerdì 17 febbraio 2012

Mettiti la fede in saccoccia


Le cronache informano che la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles ha varato un’inedita iniziativa: la Faith Card, o “carta della fede”.  Si tratta di un rettangolo di plastica identico alle carte di credito che riporta il nome dell’intestatario e i sei compiti che gli spettano in quanto cattolico: «Condividere con gli altri la gioia di conoscere Cristo; pregare; celebrare regolarmente i sacramenti; amare il prossimo come se stessi; mettere saggiamente a frutto i doni ricevuti; perdonare così come si è stati perdonati». La carta è stata stampata in un milione di esemplari. Il vescovo di Brighton Kieran Corry, promotore dell’iniziativa, ha dichiarato che «tutti noi portiamo nel portafoglio una grande varietà di carte che riflettono in parte la nostra identità e mostrano le cose per noi importanti» e quindi non si vede perché non portare in tasca una carta che ha la funzione di «offrire ai cattolici un promemoria quotidiano su cosa significa essere un seguace di Cristo». «Non possiamo – ha aggiunto Corry – riassumere l’intera nostra fede in questa carta, ma speriamo solo che essa invogli i fedeli a fare, leggere e imparare di più». Inoltre, essa rivela agli altri «che si crede in Dio, che la vita ha uno scopo, che si cerca di amare e servire il prossimo». Insomma, la carta è «pensata per dare ai cattolici la forza di condividere la loro fede».
Sul Corriere della Sera Marco Ventura ha commentato: «La Faith Card ti mette in tasca la fede che non hai». Condivido questo duro giudizio. Si può dire: “Cosa c’entra un ebreo a commentare una vicenda che riguarda il mondo cattolico? Si faccia i fatti suoi». Potrei rispondere dicendo che nel farmi i fatti miei ho le carte in regola: non ho mai avuto peli sulla lingua nel criticare certi ambienti ebraici che confondono i principi dell’ebraismo con il politicamente corretto. Ma soprattutto ho molto a cuore le sorti delle cosiddette “radici ebraico-cristiane” di questa Europa allo sbando. Si è battagliato invano per inserire il riferimento a queste radici nella costituzione europea, e di recente il presidente Monti ha risollevato la questione. Ma ho sempre pensato che, se si tratta di un atto formale per mettere a posto la coscienza e poi razzolare in modo difforme, tanto vale lasciar perdere. La faccenda della Faith Card mi rafforza in questa convinzione.
Una faccenda innocua, questa della Faith Card, ma sintomatica del punto cui siamo arrivati. Occorre elencare quei sei compiti perché una persona si “ricordi” cosa significhi essere cristiano. È come il codice numerico che serve a prelevare i quattrini dal bancomat. Solo che quello tocca ricordarlo a memoria, mentre qui uno può dimenticarselo: basta metter mano al portafoglio casomai ci si fosse scordati chi siamo. Ci sarebbe da ridere se non fosse da piangere. Il buon Corry è consapevole che mancano nella carta tanti precetti fondamentali – per esempio, rispettare la vita umana, anche evitando aborti e manipolazioni genetiche – ma non si può metter tutto in una carta di credito: si spera però che «invogli i fedeli a fare, leggere e imparare di più». Non si pretende la lettura delle Sacre Scritture. Si comincia a studiare la carta di fede e da cosa nasce cosa. L’istruzione in Inghilterra è notoriamente un disastro ma non immaginavo che fosse giunta a questo punto.
Ma non bisogna essere cattivi con il vescovo Corry che ha agito in conformità a un certo stile da congregazione religiosa anglosassone. Poteva far sfilare delle majorettes, ha mostrato spirito postmoderno adeguandosi al modello commerciale della carta di credito. Possiamo riderne dall’alto della nostra serietà continentale ma sarebbe meglio rendersi conto che siamo tutti nella stessa barca e che questa tragicomica iniziativa ha svelato a cosa è ridotta la fede in Occidente.
Faccio una sola semplice osservazione: se si è religiosi, nel senso delle religioni monoteiste, non si può non essere spiritualisti. Cos’è il Dio della Bibbia se non spirito? È l’“Io sono colui che sono”, non un Giove tonante, una sorta di superuomo dotato di poteri speciali ma subordinato al Fato. Non insegnano le nostre religioni che l’anima dell’uomo è una scintilla dello spirito divino? Eppure, ricordo un incontro in una sede molto religiosa in cui ci si vergognava di dirsi spiritualisti, e si facevano incredibili acrobazie per reinterpretare l’anima alla luce delle neuroscienze, civettando con il più smaccato materialismo. L’anima non si porta più. Si porta solo il cervello. Persino il sentimento di trascendenza è diventato una conformazione neuronale. Le neuroteologie riducono Dio a una questione genetica e s’insegnano nelle università religiose. Ci si vergogna di parlare di Dio, di anima, di trascendenza. I principi morali sono sì rivelati ma, per fortuna, sono in accordo con quello che l’evoluzione ha generato nel nostro cervello. Non si può mica far la figura degli oscurantisti, che diamine!
Questa paura porta con sé il resto: la soggezione totale nei confronti della tecnoscienza e della tecnocrazia, il blaterare dell’educazione come basata sul rapporto tra persone e poi accettare supinamente che sia ridotta a tecniche. La morale sparisce ingurgitata dalla bioetica e ci si adatta a discettare di solenni assurdità come lo “stato minimo di coscienza”, che sarebbe addirittura misurabile con apparecchi.
Penso che non vi sia altro da aggiungere. Quando si è giunti a questo punto non c’è più posto per la religione. Questa è la realtà che occorre guardare in faccia. Inutile nascondersi che, su questa via, il Continente è destinato a essere islamizzato. Già, perché la concezione islamica dominante non ha alcuna soggezione nei confronti della scienza e della tecnologia: sono strumenti da usare, che non debbono interferire con la fede. E siccome l’uomo ha un inesauribile bisogno di spiritualità, questo bisogno s’incanalerà dove viene soddisfatto. Peccato che l’Occidente giudaico-cristiano abbia lottato per secoli in una direzione diversa: trovare un equilibrio tra ragione e fede, non subordinare l’una all’altra, non cedere all’integralismo e alla negazione della ragione senza rinunciare alla spiritualità religiosa. E proprio ora che questo equilibrio sembrava raggiunto – il richiamo a questo equilibrio era il senso profondo del discorso di Ratisbona di Benedetto XVI – ecco che la bilancia si squilibra dall’altra parte e la religiosità si dissolve.
Non basteranno cento milioni di Faith Card a riempire questo vuoto spirituale.
(Tempi, 14 febbraio 2012)

martedì 14 febbraio 2012

domenica 12 febbraio 2012

Chris Hedges, Perchè gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico

Chris Hedges, Perchè gli Stati Uniti distruggono il loro 

sistema scolastico


(Per la versione originale cliccare sul titolo)

Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, sbudella le proprie librerie pubbliche e trasforma le proprie frequenze in veicoli di svago ripetitivo a buon mercato, diventa cieca, sorda e muta.  Apprezza i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione. Celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato e delle imprese.  Li incanala in un sistema castale di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.
Gli insegnanti, con i loro sindacati sotto attacco, stanno diventando altrettanto sostituibili che i dipendenti a paga minima di Burger King.  Disprezziamo gli insegnanti veri – quelli con la capacità di ispirare i bambini a pensare, quelli che aiutano i giovani a scoprire i propri doni e potenziali – e li sostituiamo con istruttori che insegnano in funzione di test stupidi e standardizzati. Questi istruttori obbediscono. Insegnano ai bambini a obbedire. E questo è il punto. Il programma ‘No Child Left Behind’, sul modello del “Miracolo Texano”, è una truffa. Non ha funzionato meglio del nostro sistema finanziario deregolamentato. Ma quando si esclude il dibattito, queste idee morte si autoperpetuano.Il superamento di test a scelta multipla [bubble testcelebra e premia una forma peculiare di intelligenza analitica.
Questo tipo di intelligenza è apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario.  Non vogliono dipendenti che pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti. Vogliono che essi servano il sistema.  Questi testi producono uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test elevano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi. Premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità.  I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che marciano al suono del proprio tamburo – sono eliminati.
“Immagina” ha detto un insegnante di scuola pubblica di New York che ha chiesto di non fare il suo nome, “ di andare ogni giorno al lavoro sapendo che molto di quello che fai è una truffa, sapendo che non stai in alcun modo preparando gli studenti alla vita in un mondo sempre più brutale, sapendo che se non continui, secondo copione, con i tuoi corsi di preparazione ai test, e anzi se non migliori al riguardo, resterai senza lavoro.  Fino a pochissimo tempo fa, il preside di una scuola era qualcosa di simile a un direttore d’orchestra: una persona che aveva una profonda esperienza e conoscenza della parte e della collocazione di ogni membro e di ogni strumento. Negli ultimi dieci anni ho assistito all’emergere sia dell’Accademia della Leadership del [sindaco] Mike Bloomberg sia dell’Accademia dei Sovrintendenti di Eli Broad, entrambe create esclusivamente per produrre all’istante presidi e sovrintendenti che si modellano sugli amministratori delegati delle imprese.  Come è possibile che una cosa del genere sia legale? Come vengono riconosciute tali accademie? Di leader di che qualità ha bisogno una “accademia della leadership”? Che tipo di società consente a persone simili di amministrare le scuole dei suoi bambini? I testi di alto livello possono essere inutili da punto di vista pedagogico ma sono un meccanismo brillante per minare il sistema scolastico, instillando paura e creando una giustificazione perché se ne impossessino le imprese.  C’è qualcosa di grottesco nel fatto che la riforma dell’istruzione sia diretta non da educatori bensì da finanzieri e speculatori e miliardari.”
Gli insegnanti, sotto attacco da ogni direzione, stanno abbandonando la professione. Anche prima del blitzkrieg della “riforma” stavamo perdendo metà di tutti gli insegnanti nell’arco di cinque anni da quando avevano iniziato a lavorare, e si trattava di persone che avevano speso anni e molte migliaia di dollari per diventare insegnanti. Come può aspettarsi il paese di trattenere professionisti dignitosi e addestrati di fronte all’ostilità delle condizioni attuali? Sospetto che i gestori di fondi speculativi che stanno dietro il nostro sistema delle scuole parificate – il cui interesse principale non è certo l’istruzione – siano felicissimi di sostituire gli insegnanti veri con istruttori non sindacalizzati e scarsamente addestrati. Insegnare sul serio significa instillare i valori e il sapere che promuovono il bene comune e proteggono una società dalla follia dell’amnesia della storia. L’ideologia utilitaristica industriale abbracciata dal sistema dei test standardizzati e delle ‘accademie della leadership’ non ha tempo per le sottigliezze e le ambiguità morali intrinseche a un’educazione alle arti liberali. L’industrialismo ruota intorno al culto dell’io. E’ incentrato sull’arricchimento e il profitto personale come solo fine dell’esistenza umana. E quelli che non si adeguano sono messi da parte.
“E’ estremamente avvilente rendersi conto che si sta in realtà  mentendo a questi bambini insinuando che questa dieta di letture industriali e di test standardizzati li stia preparando a qualcosa,” ha detto questo insegnante, che temeva di subire rappresaglie dagli amministratori scolastici se questi avessero saputo che stava parlando fuori dai denti. “E’ ancor più avvilente sapere che la tua sussistenza dipende sempre più dal sostenere questa bugia.  Ti devi chiedere come mai gli amministratori dei fondi speculativi siano così improvvisamente interessati all’istruzione dei poveri delle città? Lo scopo principale della follia dei test non è di valutare gli studenti, bensì di valutare gli insegnanti.”
“Non posso dirlo con certezza – non con la certezza di un Bill Gates o di un Mike Bloomberg che pontificano con certezza assoluta in un campo del quale non sanno assolutamente nulla – ma sospetto sempre più che uno degli obiettivi principali della campagna per la riforma sia di rendere il lavoro dell’insegnante così degradante e offensivo che gli insegnanti dignitosi e davvero istruiti semplicemente se ne andranno fin quando mantengono ancora un po’ di rispetto per sé stessi,” ha aggiunto. “In meno di un decennio siamo stati spogliati dell’autonomia e siamo sempre più microgestiti.  Agli studenti è stato dare il potere di licenziarci per il fallimento nei loro test. Gli insegnanti sono stati assimilati a porci al truogolo e incolpati del collasso economico degli Stati Uniti.  A New York ai presidi è stato dato ogni incentivo, sia finanziario sia in termini di controllo, perché sostituiscano gli insegnanti esperti con reclute di 22 anni fuori ruolo. Costano meno. Non sanno niente. Sono malleabili e vulnerabili alla revoca.”
La demonizzazione degli insegnanti è un’altra finta della propaganda, un modo, da parte dell’industria, di sviare l’attenzione dal furto di circa 17 miliardi di dollari di stipendi, salari e risparmi a danno dei lavoratori statunitensi e da un panorama in cui un lavoratore su sei è disoccupato. Gli speculatori di Wall Street hanno saccheggiato il Tesoro statunitense. Hanno frustrato ogni tipo di regolamentazione. Hanno evitato incriminazioni penali. Stanno svuotando i servizi sociali fondamentali. E ora stanno pretendendo di amministrare le nostre scuole e università.
“Non solo i riformatori hanno rimosso la povertà come fattore; hanno anche rimosso le attitudini e le motivazioni degli studenti come fattori,” ha detto questo insegnante, che è membro di un sindacato insegnanti. “Sembrano credere che gli studenti siano qualcosa di simile alle piante cui basti dar acqua ed esporle al sole del tuo insegnamento e tutto fiorisce. Questa è una fantasia che insulta sia lo studente sia l’insegnante.  I riformatori sono venuti fuori con una varietà di piani insidiosi promossi come passi per professionalizzare il lavoro degli insegnanti. Siccome sono tutti uomini d’affari che non sanno nulla del settore, è superfluo dire che ciò non si fa dando agli insegnanti autonomia e rispetto. Usano remunerazioni basate sul merito in cui gli insegnanti degli studenti che fanno bene nei test a risposta multipla ricevono più soldi e gli insegnanti i cui studenti non fanno così bene nei test a risposta multipla, ricevono meno soldi. Naturalmente l’unico modo in cui ciò potrebbe essere concepito come equo sarebbe se in ogni classe si avesse un gruppo identico di studenti; una cosa impossibile. Lo scopo vero della remunerazione in base al merito consiste nel dividere gli insegnanti gli uni dagli altri spingendoli alla caccia agli studenti più brillanti e più motivati e a istituzionalizzare ulteriormente l’idea idiota dei test standardizzati. C’è sicuramente un’intelligenza diabolica all’opera in tutto ciò.”
“Se si può dire che l’amministrazione Bloomber sia riuscita in qualcosa,” ha detto, “ha avuto successo nel trasformare le scuole in fabbriche di stress in cui gli insegnanti scorrazzano a chiedersi se è possibile compiacere i propri presidi, se la propria scuola sarà ancora aperta l’anno prossimo, se il sindacato sarà ancora lì a offrire un qualche genere di protezione, se avranno ancora un posto di lavoro l’anno prossimo. Non è così che si gestisce un sistema scolastico. Così lo si distrugge. I riformatori e i loro compari nei media hanno creato un mondo manicheo di insegnanti cattivi e di insegnanti efficienti. In questo universo alternativo non ci sono altri fattori. Ovvero, tutti gli altri fattori – povertà, genitori degeneri, malattie mentali e denutrizione – sono tutte scuse del Cattivo Insegnante che possono essere superate dal duro lavoro dell’Insegnante Efficiente.”
I davvero istruiti diventano consci. Diventano consapevoli di sé stessi.  Non mentono a sé stessi. Non fanno finta che la truffa sia una cosa morale o che l’avidità della imprese sia una cosa buona.  Non affermano che le esigenze del mercato possano giustificare moralmente la fame dei bambini o la negazione dell’assistenza medica ai malati. Non cacciano di casa 6 milioni di famiglie come costo della conduzione degli affari.  Il pensiero è un dialogo con il proprio io interiore. Quelli che pensano pongono domande, domande che coloro che detengono l’autorità non vogliono siano poste. Ricordano chi siamo, da dove veniamo e dove dovremmo andare. Restano eternamente scettici e diffidenti nei confronti del potere. E sanno che questa indipendenza morale è l’unica protezione dal male radicale che deriva dall’incoscienza collettiva. Questa capacità di pensare è baluardo contro ogni autorità centralizzata che cerchi di imporre un’obbedienza stupida. C’è un’enorme differenza, come comprese Socrate, tra l’insegnare alle persone cosa pensare e l’insegnar loro come pensare. Quelli che sono dotati di una coscienza morale rifiutano di commettere delitti, anche quelli sanzionato dallo stato-impresa, perché alla fine non vogliono vivere con dei criminali, sé stessi. “E’ meglio essere in conflitto con il mondo intero […] che essere in conflitto con me stesso,” disse Socrate.
Quelli che sono in grado di porre le domande giuste sono armati della capacità di fare una scelta morale, di difendere il bene contro le pressioni esterne.  Ed è per questo che il filosofo Immanuel Kant pone i doveri che abbiamo verso noi stessi prima dei doveri che abbiamo verso gli altri. Il riferimento, per Kant, non è l’idea biblica dell’amore per sé stessi – ama il tuo prossimo come te stesso, fai agli altri quello che vorresti che essi facessero a te – ma il rispetto di sé. Quel che ci dà valore e significato come esseri umani è la capacità di sollevarci ed opporci all’ingiustizia e alla vasta indifferenza morale dell’universo. Una volta morta la giustizia, come sapeva Kant, la vita perde ogni significato.  Quelli che obbediscono docilmente alle leggi e alle norme imposte dall’esterno – comprese le leggi religiose – non sono esseri umani morali.  L’adempimento di una legge imposta è moralmente neutro. I davvero istruiti mettono le loro volontà al servizio di un’istanza di giustizia, empatia e ragione più elevate. Socrate ha sostenuto la stessa tesi quando ha detto che è meglio patire il male che farlo.
“Il male più grande che sia stato perpetrato,” ha scritto Hannah Arendt, “è il male commesso dai nessuno, ovvero dagli esseri umani che rifiutano di essere persone.” Come ha puntualizzato la Arendt, dobbiamo aver fiducia soltanto in coloro che hanno questa consapevolezza di sé stessi. Questa consapevolezza di sé stessi viene solo dalla coscienza. Viene dalla capacità di guardare la crimine che viene commesso e dire “Io non posso”.  Dobbiamo temere, ha ammonito la Arendt, quelli il cui sistema morale è costruito sulla struttura inconsistente dell’obbedienza cieca.  Dobbiamo temere quelli che non sono in grado di pensare. Le civiltà prive di coscienza si trasformano in deserti autoritari.
“I malvagi peggiori sono quelli che non ricordano perché non hanno mai prestato attenzione alla questione e, senza ricordo, niente può trattenerli,” scrive la Arendt.  “Per gli esseri umani, pensare al passato significa muoversi nella dimensione della profondità, gettando radici e così rendendosi stabili, in modo da non essere spazzati via da qualsiasi cosa possa accadere, lo Zeitgeist [lo spirito del tempo], o la Storia o la semplice tentazione.  Il male più grande non è profondo, non ha radici, e poiché non ha radici non ha limiti, può arrivare a estremi impensabili e spazzare il mondo intero.”

venerdì 3 febbraio 2012

LIBERTA' D'INSEGNAMENTO? AUTONOMIA SCOLASTICA?


Che cos'è la libertà di educazione e di insegnamento? Perché è tanto difficile realizzarla? Sarebbe più facile rispondere se non vivessimo nella confusione circa ciò che si deve intendere per libertà e per una visione liberale della vita associata. Piero Ostellino, nel martellare contro le politiche del governo dei tecnici, lamenta che ormai gli autentici liberali sono quattro gatti. È una caratteristica italiana? Magari fosse. Tutto sarebbe più semplice.
Apprendiamo che in un distretto scolastico del New Jersey, USA, per combattere l'obesità si è progettato di dotare i bambini di braccialetti elettronici, simili a quelli per i detenuti in libertà vigilata, per monitorare il battito cardiaco, le calorie accumulate e consumate, le distanze percorse. L'obbiettivo è combattere l'obesità. Se una simile iniziativa fosse stata presa in un paese totalitario non ci saremmo stupiti. È stata concepita nel paese della libertà. Il fatto è che viviamo di stereotipi: gli USA sono ormai dilaniati dalla schizofrenia tra tradizione liberale e controllo sociale autoritario. La gestione della salute che domina negli USA (e che viene esportata nel mondo) stride con la celebre frase del padre del liberalismo John Stuart Mill: «Ciascuno è l'unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica, sia mentale e spirituale». Andrebbe riscritta: «Lo stato è l'unico guardiano della salute fisica, mentale e spirituale dei cittadini, della procreazione, dell'invecchiamento, della gestione del fine vita». Ci vorrebbe un libro per analizzare perché il paese liberale per eccellenza è finito su questa via: diciamo solo che la contraddizione era insita nella presenza di un altro fattore determinante della cultura americana: l'idea che è possibile gestire scientificamente, oggettivamente, numericamente, tutto, dal lavoro alla cultura. Nella contraddizione tra scientismo e liberalismo il primo sta prevalendo.
E l'Europa? L'Europa vive un tale complesso di colpa per gli eccessi di ideologia che hanno condotto ai noti disastri, da credere che il controveleno sia la tecnocrazia: l'idea di unificarsi sulla moneta è uno degli esempi di questa illusoria confusione che ha generato un'altra perniciosa ideologia basata sul relativismo, sul rigetto della morale sostituita dalla "negoziazione" dei principi etici, sulla mania "gestionale". È un'ideologia che ha un suo clero: l'eurocrazia e i suoi adepti nazionali. Componenti di questa ideologia sono le visioni funzionaliste, costruttiviste, tecnocratiche, metodologiche dell'istruzione.
È curioso: si proclama in modo stentoreo di volersi allontanare dall'educazione autoritaria di un tempo, dal controllo di stato, di voler costruire un modello educativo che rispetti la libertà del singolo, di voler adattare il processo educativo alle attitudini particolari, costruendo percorsi individuali. Ma chi vive della fede cieca nella tecnocrazia e nella gestione vive nella sfiducia delle persone. E così, per realizzare quegli obbiettivi, si è finito col costruire una colossale montagna di prescrizioni. C'è da perdersi nell'oceano nei documenti e nelle normative eurocratiche e nelle loro "traduzioni" nazionali. Le prescrizioni per essere liberi… Quale tragicomico paradosso! Attorno a questo corpus teorico-pratico è cresciuto uno stuolo sterminato di "esperti", di pedagogisti, di psicologi, di "valutatori", persone che raramente mettono piede in una scuola o raramente hanno insegnato e che, soprattutto, non hanno un'accettabile preparazione culturale, com'è evidenziato dai loro ineffabili prodotti. Lavorano indefessamente per ridurre il sistema dell'istruzione a una macchina burocratica puramente metodologica in cui non si parla mai di contenuti ma soltanto di tecniche e di gestione. È il trionfo di quella che Lucio Colletti chiamava la "scienza dei nullatenenti". In questa cornice, la parola d'ordine dell'autonomia è una presa in giro. Lo sanno bene gli insegnanti, sottoposti a valanghe di prescrizioni, di "indicazioni", di adempimenti burocratici, di schede, di test.
Il confronto con la riforma Gentile del 1923 – non per difenderla, va detto per non essere linciati – è impietoso. Poche pagine ispirate (com'è giusto) a una precisa visione culturale, basata sulla centralità delle materie umanistiche e della filosofia, mirate ai programmi d'esame, neppure a quelli scolastici. Nessuna indicazione didattica, totale libertà dell'insegnante di scegliere il percorso da seguire: rispetto a certe verbose, prescrittive, soffocanti "indicazioni nazionali" o leggi di riforma di oggi, un autentico modello di liberalismo, non a caso stravolto dalle successive "riforme" fasciste.
Si straparla del ruolo della "valutazione" per riqualificare la scuola. Ma una seria valutazione, concepita in modo liberale, dev'essere ex post: agite liberamente, sarete valutati alla fine. Qui accade il contrario. La riforma universitaria doveva basarsi sul principio "assumete chi vi pare, vi valuteremo dai risultati". È finita con regole di reclutamento talmente soffocanti, dirette dal ministero e dagli organi di controllo, da ridurre le commissioni giudicanti a compilatori di verbali sulla base di tabelle.
Chi desidera un'istruzione libera, chi persegue l'obbiettivo dell'autonomia e, al contempo, pensa che occorra affidarsi alle ricette tecnocratiche, se è in buona fede è una figura patetica che evoca l'immagine della zappa sui piedi. Chi spera che in questo contesto possa svilupparsi una scuola privata che crei un sistema misto, aperto, dotato di alternative, s'illude: lo statalismo soffocherà senza pietà qualsiasi iniziativa sotto la ferula delle sue infinite e puntigliose prescrizioni. Perché il potere dello statalismo è legato alla dittatura della metodologia. Immaginate un sistema dell'istruzione in cui al centro siano i contenuti dell'insegnamento – definiti in modo asciutto, chiaro, aggiornati in funzione delle esigenze culturali, scientifiche, tecnologiche di oggi –, un sistema in cui l'insegnante sia libero di scegliere il metodo che più gli aggrada, in cui la valutazione si fa ex post, e viene gestita come una rigorosa procedura di ispezione interna al sistema stesso. Che cosa resterebbe da fare all'esercito statalista di burocrati ed esperti che brulica attorno al sistema dell'istruzione? Ben poco. Si farebbero anche enormi risparmi di bilancio da dedicare al miglioramento del sistema. Ma fino a che non si comprenderà che questa è la posta in gioco, fino a che non verrà spazzata via la dittatura dei tecnocrati nullatenenti, l'aspirazione a un'istruzione "libera" sarà senza speranze.
(Tempi, 1 febbraio 2012)