martedì 24 maggio 2011

ORECCHIE DA MERCANTE

Nell'articolo-post precedente abbiamo parlato delle orecchie da mercante con cui si usano accogliere le critiche che suonano sgradite quando non si vuol rinunciare ai propri pregiudizi e alla propria ideologia.
Ed ecco un altro esempio.
Nel novembre 2010 (6 mesi fa) analizzavamo in un articolo alcuni dei motivi del crollo delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali, e il tonfo della riforma di questi istituti, un tonfo impietoso a fronte del successo delle nuove Indicazioni nazionali per i licei.
Orecchie da mercante.
Oggi, sul Corriere della Sera si dedica una pagina intera allo stesso tema come se nulla fosse. Non una parola sulla fasulla riforma a base di "complessità", "olismo" e "scienze integrate" che ha gettato questi istituti allo sbando, tanto che molti insegnanti chiedono di poter far uso di una versione adattata delle Indicazioni per i licei. Non soltanto. Si intervista il pedagogista Bertagna, uno dei massimi teorici della complessità, dell'olismo e dell'"ologramma", sulla base della cui ideologia è stata costruita una delle peggiori riforme della scuola italiana, la riforma Moratti.
Domani si svolgerà a Roma una conferenza sul tema degli istituti tecnici con una nutrita partecipazione di confindustriali e dei teorici di quella brillante riforma. 
Così, tanto per confermare il detto che «errare è umano, perseverare è diabolico».
Ripropongo l'articolo di sei mesi fa:


Dunque, i dati sono confermati: le iscrizioni agli Istituti tecnici e professionali crollano, quelle ai Licei crescono vistosamente. Le aziende che già l’anno scorso hanno trovato sul mercato la metà dei diplomati che erano disposte ad assumere, rischiano di trovarne sempre di meno.
È da augurarsi che non inizi la consueta tiritera sulle famiglie italiane che vogliono solo il pezzo di carta che consenta ai figli di diventare avvocati, medici o professori. Le cause sono più complesse. Sarebbe sbagliato, sbagliatissimo, riproporre la litania contro la tradizione “classica gentiliana” che soffoca quella scientifica-tecnica e getta sugli Istituti tecnici la fama di una scuola di livello inferiore. Non è così: accanto ai licei classico e scientifico, l’Italia ha da circa un secolo una tradizione d’insegnamento tecnico di altissimo livello, ai primi posti in Europa. Casomai, occorrerebbe chiedersi perché negli ultimi decenni questa tradizione si sia attenuata e corrotta e l’andazzo negativo non sia stato invertito dall’ultima riforma. C’è chi dice che la colpa è del fatto che la riforma è partita in fretta e furia, Così, le famiglie avrebbero preferito riferirsi a scuole collaudate come i Licei. Neanche questo è vero, perché anche i Licei sono stati riformati radicalmente, per indirizzi, struttura, orari e anche per i contenuti dell’insegnamento, e molto più in fretta e furia dei tecnici-professionali la cui riforma è in cantiere da molto tempo.
E allora? Allora, per capire meglio, bisogna rifarsi al percorso della riforma dei tecnici-professionali che è stato a dir poco tormentato. In questo contesto, la famosa parola d’ordine dell’“essenzializzazione” – orrido gergo burocratese – ha assunto una valenza non solo organizzativa ma di contenuto con l’idea di introdurre le cosiddette “scienze integrate”, un pastone includente le scienze della terra, la biologia, la fisica e la chimica. Sbagliava chi ha creduto che si trattasse di un’escogitazione volta a ridurre gli orari e il numero degli insegnanti. Beninteso, molti insegnanti hanno reagito male alla prospettiva di dover insegnare materie su cui non avevano sufficienti competenze. Ma il vero problema è che dietro le “scienze integrate” c’era soprattutto un progetto ideologico. Esso si basava sul presupposto che la visione classica della ripartizione della scienza in discipline sarebbe morta, mentre ora si tenderebbe a concepirla come un sistema a rete, strutturato secondo una logica di “emergenza dal basso”. L’idea chiave sarebbe quella della “complessità”. La realtà deve essere vista secondo una logica sistemistica, dove il sistema è un insieme di elementi che interagiscono generando dinamiche che fanno “emergere” qualcosa di più di ciò che è dato dalle singole parti. Un simile approccio richiederebbe la rottura dei confini disciplinari, una visione della conoscenza come un tutto integrato: la scienza è una teoria del “tutto”.
Una simile visione si accompagna a un’ideologia pedagogica basata sul costruttivismo sociale e conoscitivo: riferendosi, manco a dirlo, alle neuroscienze, tale costruttivismo è giustificato da teorie sulle modalità del funzionamento del cervello, secondo cui percezione, azione e progetti del soggetto sono una sola cosa.
In realtà, chi conosca un minimo la scienza contemporanea sa bene che queste visioni “integrate”, basate sui paradigmi della “complessità” e dell’“emergenza” rappresentano una corrente minoritaria, se non marginale, e talora aspramente criticata. La scienza continua ad essere fortemente riduzionista e strutturata per discipline. Non vale invocare le affermazioni di illustri scienziati contro gli eccessi dello specialismo, perché da quelle affermazioni (sacrosante) non discende affatto la richiesta di una dissoluzione delle ripartizioni disciplinari. Queste ultime, se correttamente intese, non riflettono una divisione della natura a compartimenti, quanto l’articolazione della conoscenza in un ventaglio di metodologie ciascuna delle quali è particolarmente appropriata ad affrontare una specifica problematica. Viceversa, il trasferimento metodologico da un ambito all’altro è un’operazione avventata. Per esempio, i metodi di analisi di provata efficacia in fisica possono rivelarsi del tutto inappropriati a studiare i fenomeni vitali. Né l’idea di costruire una metodologia scientifica unificata ha mai sortito risultati rilevanti. Casomai, ha riproposto il più piatto riduzionismo, per esempio attribuendo un ruolo esclusivo all’approccio logico-matematico.
Comunque, tutto ciò è materia di discussione tra gli addetti ai lavori. Sostenere l’approccio della “complessità” e dell’“emergenza” è legittimo, ma farlo uscire dal recinto del dibattito specialistico per farne addirittura un programma di riforma dell’istruzione scientifico-tecnologica è francamente eccessivo. E tale apparve alle Società ed Associazioni dei fisici e dei chimici, secondo cui, in tal modo, si finiva col negare di fatto «all’insegnamento scientifico la possibilità di svolgere un compito significativo nella formazione culturale degli studenti». Da cui la richiesta di mantenere distinti gli insegnamenti scientifici.
È vero che, alla fine, l’impatto delle “scienze integrate” sugli istituti tecnici è stato smorzato ma la formulazione delle indicazioni di insegnamento ha conservato quel carattere ideologico, aggravato dal gergo didattico-burocratese basato sul riferimento alla solita trimurti delle “conoscenze-competenze-abilità”, che si risolve in litanie prive di fantasia e di libertà culturale. È innegabile che si sia prodotto un notevole disagio tra gli insegnanti, molti dei quali sono fortemente disorientati; e che un analogo disorientamento si sia prodotto tra le famiglie: il profilo degli istituti tecnici è apparso molto più opaco e incerto di quanto fosse in precedenza.
Del resto, se si guarda alle nuove Indicazioni nazionali per i Licei, non c’è dubbio che proprio in esse si trova espresso molto meglio un indirizzo scientifico-tecnologico adeguato e moderno. Qui l’esigenza di mantenere le distinzioni disciplinari si coniuga con uno sforzo originale di stabilire rapporti interdisciplinari. Le innovazioni scientifiche si coniugano con l’enunciazione trasparente dei ponti che possono essere gettati tra matematica, fisica, scienze naturali, informatica, e anche con le scienze umane.
Se si vogliono fare polemiche vetuste si rischia di non vedere che la situazione non è tanto brutta come la si dipinge: l’interesse per gli indirizzi scientifico-tecnologici c’è, ed è stato sostenuto da una buona riforma dei Licei, come è dimostrato dal successo dei Licei scientifici, guarda caso proprio nell’indirizzo “scienze applicate”.
Naturalmente, questo non risolve l’enorme problema degli istituti tecnici e professionali, la cui funzione non può essere surrogata in alcun modo. Ma anche gli ambienti industriali, che soffrono di questa situazione e giustamente se ne lamentano, dovrebbero riflettere all’opportunità di non affidarsi a ideologie costruttiviste che ormai fanno acqua da tutte le parti.
(Il Giornale, 21 novembre 2010)

1 commento:

Roberto ha detto...

Gentile Professore,
la seguo sempre con molta attenzione e interesse, e il suo blog rappresenta per me, che sono un insegnante, un ottimo momento di riflessione.
Ho avuto modo di leggere i dati sulle iscrizioni pubblicate dal corriere della sera e vorrei aggiungere alcune mie considerazioni.
I due indirizzi che mostrano i maggiorni incrementi sono il liceo scientifico con indirizzo tecnologico e l'istituto tecnico tecnologico.
Premesso che incrementi nell'ordine dell'1-2% potrebbero non essere significativi, la tendezna che si può cogliere è di una maggiore attenzione, da parte delle famiglie, ad una formazione di carattere scientifico, che permette un buon inserimento nel mondo del lavoro o la frequenza di facoltà ad indirizzo scientifico-tecnologico per il futuro.
In questo modo si cerca di assecondare una tendenza verso studi che dovrebbero meglio garantire un ingresso nel mondo del lavoro.
La crisi del tecnico-economico va avanti da anni, anche perchè, per svolgere le stesse funzioni del ragioniere di 20-30 anni fa, occorre ormai la laurea.
Per quanto riguarda i professionali il loro ruolo è stato svuotato prima dalla riforma del titolo V della costituzione e poi dalla stessa riforma Gelmini che ha accolto i dettami della L Cost. 3/01, per cui sono diventati dei tecnici meno qualificati e soprattutto dediti a qualifiche non appetibili.
Credo che questi siano i motivi che stanno creando le tendenze sulle iscrizioni.
Sono d'accordo con lei per quanto riguarda scienze applicate nei primi anni. E' una materia confusa e sarebbe bene invece precisarne i contorni, anche per sapere che cosa si deve insegnare.