mercoledì 28 luglio 2010

Non esageriamo. L'Università ha le sue colpe ma non tali da giustificare un linciaggio. E Confindustria non ha i titoli per impancarsi a dar lezioni su come gestire il sistema dell'istruzione italiano


La piega che sta prendendo il dibattito sull’università induce a tornare sulla questione: si diffondono atteggiamenti così negativi nei confronti dell’istituzione da chiedersi cosa possa venirne di costruttivo.
Per molti settori del pubblico impiego è stato revocato il taglio degli scatti di carriera, pur senza chiedere nulla in cambio. Dall’università è venuta la richiesta di conservare la progressione per i docenti che dimostrino di meritarla. La proposta è stata lasciata cadere senza commenti. Eppure, sembra che l’unico ambito in cui la valutazione non è soltanto oggetto di discorsi ma inizia ad essere implementata concretamente, addirittura per il singolo docente, sia soltanto l’università. Non risulta che la revoca del blocco degli scatti in altri settori del pubblico impiego sia stata condizionata a verifiche di merito. Anzi, circolano proposte di valutazione della scuola imperniate sull’idea discutibilissima di valutare non il singolo insegnante ma ogni istituto scolastico preso in blocco. L’Università di Roma “La Sapienza” ha prodotto una prima autoanalisi spietata del comportamento dei propri docenti, all’insegna del principio «prima i doveri poi i diritti», mentre in giro si continua ad enunciare il principio inverso.
In un precedente articolo abbiamo ricordato i misfatti con cui l'università è stata fatta a pezzi e le cause dell’invecchiamento del corpo docente. Proprio mentre sta per prodursi uno svecchiamento accelerato –nell’arco di pochi anni quasi metà del corpo docente andrà in pensione, e la valanga è già iniziata – spunta l’ipotesi del pensionamento a 65 anni con la motivazione che così si aprirà ancor più spazio ai giovani. Dire che nella maggior parte dei paesi europei si va in pensione prima dei 70 anni, in particolare in Francia, a 65 anni, non è un buon argomento. Si potrebbe obiettare che, nel tanto vantato modello statunitense, non esiste età di pensionamento: tutto dipende dalla qualità del soggetto e dalla possibilità che possa espletare un ruolo utile in contesti diversi. Per contro, chi conosce la realtà francese sa che il limite di età a 65 anni mette fuori gioco persone nel pieno delle capacità intellettuali – in particolare nel settore umanistico la maturità si raggiunge tardi – e il malessere è tale che si usa rimediare a questo insulso sperpero di risorse attribuendo ai pensionati funzioni di guida di seminari, di gruppi di ricerca, e altri incarichi.
Inoltre, con tutto il dovuto rispetto, l’università non è una cooperativa di conducenti di automezzi, la cui competenza di guida può essere acquisita con un breve corso. Diventare un buon insegnante e un buon ricercatore richiede anni e un trasferimento di conoscenze ed esperienze da una generazione all’altra, ovvero un processo delicatissimo la cui lacerazione può avere conseguenze devastanti. Come la cristallizzazione creata dalle immissioni ope legis ha determinato l’invecchiamento del corpo docente, così il conseguente pensionamento di massa produrrà una frattura generazionale dagli effetti disastrosi in termini di dispersione di esperienze. Accelerare l’ondata dei pensionamenti può aprire altri spazi di reclutamento, ma secondo un approccio meramente contabile, indifferente al problema della frattura generazionale e della qualità dell’università in termini culturali, scientifici e di esperienza didattica. Senza dire che l’idea che un giovane sia di per sé preferibile a un anziano, indipendentemente dal fatto che sia intelligente o stupido, colto o ignorante, è talmente bislacca da costituire un motivo sufficiente per mandare in pensione chi la formula.
Un’altra tendenza inquietante è il continuo ridimensionamento dello spettro di funzioni che l’università è chiamata ad esercitare. Fino a non molto tempo fa, era considerato del tutto ovvio che l’università fosse il luogo primario per la formazione degli insegnanti e per il loro aggiornamento in servizio, ovviamente in collaborazione con la scuola. È persino avvilente doverne ricordare le ragioni: se l’università è un’istituzione di formazione superiore, in quanto non è soltanto sede di insegnamento a un elevato livello di specializzazione, ma è anche sede di ricerca scientifica, in quale altro luogo può stabilirsi una collaborazione con la scuola che mantenga quest’ultima a contatto con gli sviluppi più avanzati della ricerca in campo disciplinare, pedagogico e didattico? Ma sono insistenti le voci che chiedono di sottrarre all’università questa funzione – anche in aperta violazione dell’autonomia universitaria, visto che, fino a nuovo ordine, non vi è altra istituzione che conferisca le lauree necessarie – e che sostengono che la scuola deve fare tutto da sola.
È evidente che questa pretesa avrebbe senso se l’università non fosse più sede di ricerca scientifica. Purtroppo anche questo ruolo è messo in discussione. Non in modo esplicito, s’intende, ma nella forma più insidiosa e cioè modificando progressivamente il concetto stesso di “ricerca scientifica”. Cosa sia quest’ultima dovrebbe essere superfluo ricordare: essa dovrebbe spaziare dalle attività speculative puramente teoriche e prive di interesse immediato alle applicazioni aventi un valore diretto sul piano tecnologico. Concepire la ricerca secondo questo largo spettro è stata la grande idea che ha fatto della scienza occidentale il modello universalmente adottato e “globalizzato”. Ma, se è vero che la piega tecnoscientifica sta ovunque restringendo lo spazio delle ricerche teoriche disinteressate, da noi questa tendenza sta diventando dirompente. La prova è data dal fatto che, ormai, quando si dice “ricerca” s’intende un’attività direttamente utile all’industria e alle imprese per favorire la loro “innovazione” tecnologica. A questo andazzo contribuisce una certa miopia del capitalismo italiano, il quale non ha alcuna propensione a finanziare la “ricerca scientifica” se non è foriera di vantaggi immediati: da noi il mecenatismo scientifico-culturale caratteristico del capitalismo statunitense è inesistente. Al contrario, cresce un interesse spasmodico per il settore dell'istruzione visto come una sorta di “ufficio studi e innovazione” del mondo industriale. Alcuni degli aspetti più discutibili del disegno di legge per l’università in discussione risentono di tale visione. Se a questo si aggiunge l’insistente richiesta che l’università si leghi strettamente al territorio, diventando una sorta di ente che fornisce “know-how” per la struttura produttiva circostante, la prospettiva è chiara. Ed è una prospettiva disastrosa. Limitiamoci a dire che le grandi università statunitensi non ricavano la loro importanza e il loro prestigio dal fatto che siano legate al territorio circostante con lo scopo di fornire innovazione tecnologica, bensì perché sono un punto di riferimento nella ricerca scientifica e nella cultura internazionale. E, sebbene i fondi per la ricerca applicata stiano anche qui dilatandosi troppo, una fetta significativa per la ricerca di base, anche umanistica, viene comunque riservata. Da noi, invece, quest’ultima viene considerata sempre di più come uno spreco di risorse e un rifugio per nullafacenti.
Se anziché puntare sull’università come luogo di insegnamento e di ricerca scientifica di alto livello, e – diciamo pure la parola desueta – come luogo di alta cultura, la si degraderà al livello di un superliceo e “centro studi innovazione” regionale, per giunta trattandola con mentalità punitiva e contabile, il risultato sarà l’opposto di quello che si dice di voler perseguire: sarà il declino. Un paese come il nostro che, non possedendo quasi istituzioni di alti studi (a differenza di paesi come la Francia), svilisca la sua università, non ha futuro come paese avanzato.
(Il Messaggero, 27 luglio 2010)

venerdì 23 luglio 2010

Ricordo di V.I. Arnold


Dicono che la scienza sia bistrattata e vilipesa, vittima del disinteresse generale e di atteggiamenti irrazionalisti. Ma la scienza che ci viene propinata a dosi da cavallo su giornali e riviste è quella delle ricerche bislacche sui metodi con cui ogni donna potrà conoscere l’esatta data di inizio della propria menopausa o sulla determinazione dei geni che rendono centenari. Ma, se muore un grande scienziato, uno dei maggiori matematici del Novecento – non un saltimbanco che vaneggia di equazioni per calcolare la gelosia o la durata media di un matrimonio – non ne parla nessuno, a parte qualche trafiletto su alcuni organi di stampa. Per questo desidero, sia pure rapidamente, rendere omaggio qui a Vladimir I. Arnold, deceduto a Parigi poco più di un mese fa.
Anche lui è stato uno di quei grandi scienziati russi oppressi da un regime spietato. Nel 1974 fu insignito della Medaglia Fields, l’equivalente del Premio Nobel per la matematica, ma non potè ritirarla per l’opposizione del governo sovietico. Non si è mai capito bene perché, dato che in altri casi il regime aveva permesso di ritirare il premio conferito ad altri matematici sovietici. Da quel che risulta, Arnold fu convocato da Lev Pontriaghin, il gran visir della matematica sovietica, che lo invitò a cena a casa sua per capire a fondo le sue ricerche e la sua personalità e poi venne l’ukase. Più tardi Pontriaghin sostenne di aver ricevuto l’ordine di vietare il conferimento del premio in termini così tassativi che, se si fosse insistito, l’intera delegazione sovietica al Congresso Internazionale dei Matematici di Vancouver sarebbe stata ritirata. È difficile pensare che un personaggio di regime come Pontriaghin non fosse compartecipe dell’efferata decisione. Alla caduta del regime sovietico Arnold si trasferì all’estero, accettando un posto di professore a Parigi.
È difficile descrivere l’enorme importanza delle sue ricerche. Risolse uno dei grandi problemi posti da David Hilbert agli inizi del Novecento. Il suo nome è legato soprattutto al teorema KAM (acronimo della triade dei matematici Kolmogorov, Arnold e Moser), un risultato di straordinaria complessità che fornisce risposte importanti alla domanda se il sistema solare sia stabile.
Il suo stile era intuitivo, geniale, poco attento alle dimostrazioni formali. I suoi libri sono una miniera di risultati e intuizioni ancora da approfondire. Con stile pungente stigmatizzò la tendenza a una visione astratta della matematica. In uno scritto sull’insegnamento della matematica affermò radicalmente che «la matematica è parte della fisica, la fisica è una scienza sperimentale che è parte della scienza della natura, e la matematica è quella parte della fisica a debole base sperimentale». Riteneva che i tentativi di separare la matematica dalla fisica avessero condotto a esiti catastrofici le cui conseguenze sull’insegnamento erano state deleterie. Prendeva in giro ferocemente gli esiti dell’insegnamento formalista citando il caso di un alunno delle elementari che alla domanda «cos’è 2 + 3?» non rispondeva 5, bensì che «è 3 + 2, perché l’addizione è commutativa»… Arnold era stupefatto che dalla cultura matematica della scuola fossero spariti libri classici come «Che cos’è la matematica?» di Courant e Robbins. Di recente, ho letto un articolo di un esperto di didattica della matematica che derideva questo libro e chi l’apprezza come ruderi del passato. L’ignoranza è sempre arrogante. Disprezzare le grandi manifestazioni della vera cultura scientifica a profitto di elucubrazioni di infimo livello e ignorare il pensiero di grandi scienziati, questo sì che è un sintomo inequivocabile di crisi.

(Tempi, 21 luglio 2010)

lunedì 12 luglio 2010

La nuova civiltà delle macchine


Alexandre Koyré descriveva così la storia dell’atteggiamento dei filosofi (nell’accezione più larga del termine) nei confronti della tecnica e delle macchine: «La curva descritta da questi atteggiamenti è molto curiosa e può riassumersi nel modo seguente: essa va dalla rassegnazione senza speranza (antichità), alla speranza entusiasta (epoca moderna), per tornare alla rassegnazione disperata (epoca contemporanea). Si deve aggiungere però che il filosofo antico si rassegna all’assenza della macchina, mentre il contemporaneo è costretto a rassegnarsi alla sua presenza».
Queste parole furono scritte sessant’anni fa ed oggi la situazione appare alquanto mutata. Difatti, si è costituito un vasto fronte di persone che non soltanto non sono disperatamente rassegnate alla presenza delle macchine ma convivono felicemente con esse, e vedono nello sviluppo della tecnoscienza – la tendenza a relegare la conoscenza scientifica in posizione subordinata rispetto alla tecnologia – un fatto altamente positivo. Sull’altro fronte prevalgono i pessimisti, coloro che vedono lo sviluppo tecnologico come fonte di catastrofi ambientali, mentre restano in posizione marginale i “razionalisti” che, pur rifiutando atteggiamenti antiscientifici, criticano la deriva tecnoscientifica e propugnano una nuova alleanza tra scienza e umanesimo. Sono gli eredi della critica di Husserl alla «mera scienza di fatti» che «può soltanto creare meri uomini di fatto».
Non è sorprendente che in una rivista che si chiama “Nuova civiltà delle macchine” – e che inaugura una nuova fase della sua vita con un impegnativo numero su “Cifre, icone e macchine” – la posizione catastrofista e disperata non trovi spazio. È più sorprendente che le altre due posizioni – quella trionfalista e quella di “critica razionale”, tanto per intenderci – si presentino nelle stesse proporzioni che hanno nei media di massa, o forse in proporzioni ancor più sfavorevoli per la seconda. In sostanza, a parte un articolo di Evandro Agazzi dal titolo “Può scoppiare la pace tra scienza e umanesimo?”, il resto è un peana alla tecnoscienza e alle macchine raramente sfiorato da dubbi critici.
Agazzi inizia chiedendosi perché l’Europa debba farsi carico di ricomporre quelle realtà culturali che è d’uso chiamare “scienza” e “umanesimo”. La risposta è husserliana: perché l’Europa ha espresso una civiltà a vocazione filosofica ed è quindi soltanto entro tale vocazione che può pensarsi una ricomposizione tra l’ideale di una conoscenza scientifica che guida il progresso tecnologico e la centralità dei valori umani. Agazzi si guarda dal ricordare quanto scriveva Husserl in quei tragici anni trenta, riferendosi a «quell’acceso bisogno di sapere, quello zelo per la riforma dell’educazione e delle complessive forme sociali e politiche di esistenza dell’umanità»: «Una testimonianza perenne di questo spirito è costituita dallo splendido inno Alla gioia di Schiller e Beethoven. Oggigiorno quest’inno non può che suscitare in noi dolorosi sentimenti. È impensabile un contrasto maggiore con la nostra attuale situazione».
Oggi Alla gioia è l’inno dell’Unione Europea ma il contrasto tra quegli ideali e il politicamente corretto delle burocrazie comunitarie suscita sentimenti ancor più dolorosi. Tuttavia, è giusto non rassegnarsi. Né Agazzi si fa illusioni. Anzi, egli denunzia l’aggravarsi della separazione tra le “due culture” di cui vede un riflesso nella crisi dei sistemi dell’istruzione. Vanamente – egli osserva – si tenta di superare tale crisi con proposte di “svecchiamento” consistenti nel propinare un dosaggio più elevato di scienza: «più matematica, più fisica, più scienze naturali, più informatica, più scienze economico-sociali, con drastico ridimensionamento delle letterature, della storia, della filosofia». È una scelta illusoria perché non tiene conto di un processo che va avanti da un secolo e che sta subendo un’accelerazione crescente: l’appannarsi del valore conoscitivo della scienza, sempre più vista come un’attività meramente pratica. Pertanto un’overdose di istruzione scientifica non eleva il livello culturale dell’istruzione ma paradossalmente rischia di ottenere l’effetto opposto e di essere dannoso per il diffondersi di una “cultura” scientifica nel senso pieno del termine.
Non è possibile seguire l’analisi di Agazzi, che troviamo condivisibile, soprattutto quando indica nell’enfasi nella funzione conoscitiva della scienza la via d’uscita dalla crisi e dalla divaricazione crescente tra scienza e umanesimo: «L’Europa e l’Occidente che, in un certo senso, recano la responsabilità (che non va confusa con una colpa) di aver generalizzato il modello di vita tecnoscientifico a tutto il pianeta hanno ora anche la responsabilità di rendere questo modello compatibile con le esigenze di umanesimo insopprimibili oggi non meno che in passato per ogni tipo di civiltà…».
Anche non condividendolo riga per riga questo saggio avrebbe potuto figurare come introduzione di un numero volto a inaugurare una riflessione critica – né apologetica né catastrofista – sul macchinismo e sulla tecnoscienza contemporanei. Invece esso figura dopo un nutrito gruppo di saggi tutti ispirati a una visione trionfalistica la cui diversità da una visione critica può essere così apprezzata: mentre la seconda può essere più o meno condivisibile ma offre materia di discussione in quanto prodotto di riflessione razionale sui fatti, la prima sfocia sul terreno delle prospettive avveniristiche, per non dire della fantascienza, il che è certamente suggestivo ma mal si presta a una discussione.
Vittorio Marchis ci spiega che le icone e i simboli dei computer e dei telefoni palmari hanno innescato una rivoluzione “irreversibile” che condurrà all’avverarsi di un mito: la costituzione di una lingua globale. Può darsi. Chissà. L’autore dichiara che non sta a lui provare se questa “profezia” sia o no “frutto di fantasia”. Non spetta però neppure al lettore.
Umberto Bottazzini parla di una rivoluzione nel modo di fare matematica determinata dall’intervento massiccio dei computer. Tuttavia, se ciò è indiscutibile per quel che riguarda l’analisi numerica, per il resto l’unico riferimento è alla dimostrazione del teorema dei quattro colori, ormai vecchia di 35 anni, mentre gli ultimi anni hanno visto una clamorosa rivincita della matematica mentale con la dimostrazione del teorema di Fermat da parte di Wiles e della congettura di Poincaré da parte di Perelman.
Sorprende che un intellettuale attento e versatile come Giuseppe O. Longo, capace di coniugare la sua profonda cultura scientifica con una inesauribile vena letteraria e romanzesca, si lasci affascinare dalla sirena della futurologia. Egli osserva che la storia della scienza occidentale è un lungo tentativo di trasferire le conoscenze dalla modalità emotivo-affettiva a quella disincarnata della parola, e vede nell’espandersi della tecnologia della comunicazione un ritorno alla sfera affettiva sotto la forma di messaggi non verbali, musica, immagini. Le tecnologie digitali audiovisive solleciterebbero le reazioni psicofisiche ridimensionando la centralità della parola scritta. «Le parole non bastano: allora immagini, suoni, colori, fluttuazioni, smarrimenti sensoriali». Già, ma a sentir questo, viene in mente di andare sulla riva del mare o di salire su un sentiero di montagna tra alberi, rocce e vento. Per non dire di tanti altri smarrimenti sensoriali che non troverei allettante vivere su uno schermo, per giunta al prezzo di rinunziare alla magìa della parola scritta e parlata che Longo coltiva con tanta passione.
Con il saggio di Silvano Tagliagambe sulla “scuola e le macchine”, si misura l’abisso tra una concezione tecnologico-metodologica dell’istruzione e quella culturale-umanistica proposta da Agazzi. Tagliagambe riprende un decalogo proposto da un analista di politiche scolastiche della Banca mondiale che dovrebbe caratterizzare le Ict (acronimo dato per ovvio, alzi la mano chi non sa che si tratta di Information and Communication Technology). 1) I telefoni cellulari come strumento di apprendimento. 2) Grappoli di computer in rete. 3) Un computer per studente. 4) L’apprendimento si fa ovunque. 5) Importanza del gioco collettivo on line su Internet. 6) La personalizzazione dell’insegnamento. 7) La riorganizzazione degli spazi pedagogici (la vecchia aula sarà presto una reliquia del passato). 8) Ausiliari didattici. 9) Valutazione con misurazioni oggettive. 10) L’insegnante dovrà trasformarsi in specialista delle “gestione dell’istruzione”, un aiutante dello studente, anche se il futuro in merito, si ammette, è poco chiaro. Dopo aver assimilato questo decalogo e una tabella descrivente i LOM (notoriamente Learning Object Metadata), sorge spontanea la domanda: a che pro questa baracca metodologica? per insegnare (pardon, insegnare/apprendere) cosa? quali contenuti? a quali fini? La risposta, in verità la conosciamo: con un sorriso condiscendente ci si spiegherà che l’intero sistema della conoscenza va riorganizzato per diventare semplicemente un grande “repository” di materiali didattici, un «crocevia intelligente» a disposizione di chi se ne voglia servire. Insomma, un enorme Wikipedia. Chi si attardi a porsi domande sui contenuti e sui fini è un povero ritardato.
Siamo ben consapevoli del fatto che quando si ha dietro di sé la Banda Mondiale e la burocrazia europea si è vincenti sul breve periodo. Ma alla lunga, e forse anche sul medio periodo, si è perdenti, come lo è chiunque non abbia fiducia nelle persone ma soltanto nelle metodologie. Siamo ancora in molti a condividere testardamente le parole di Dante e a recitarle a costo di essere trattati da vecchi tromboni: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza».

(in versione ridotta su Il Foglio, 6 luglio 2010)

giovedì 8 luglio 2010

L’insopportabile fanatismo del povero Saramago

Fortunato chi, avendo vissuto buona parte della vita nel Novecento, è riuscito a non farsi contagiare neppure un po’ dalla malattia del totalitarismo. Quantomeno quel che importa è aver appreso la lezione il cui nucleo più importante è evitare il radicalismo, la tendenza a vedere il mondo in bianco e nero, a pensare che la ragione stia tutta da una parte sola e, di conseguenza, a rendersi disponibile ad arruolarsi in qualche esercito votato alla distruzione del “nemico”. I fanatismi del Novecento ci hanno indicato la necessità di praticare la virtù della tolleranza e dell’uso della ragione e a diffidare di ogni forma di estremismo, non soltanto di quelle dei classici totalitarismi – comunismo, nazifascismo – ma di qualsiasi estremismo: anche un liberismo fanatico può essere pericoloso. Tolleranza e ricerca delle sfumature quindi, ma proprio per questo non si può non essere severi e intransigenti nei confronti di coloro che non hanno appreso la lezione e che insistono a voler avvelenare il mondo con il loro fanatismo.
Questa premessa per dire che il premio Nobel recentemente defunto, José Saramago, rappresenta il modello di questo impenitente fanatismo ed evoca in me l’immagine di quei neonazisti che coltivano la memoria del Reich raccogliendone i cimeli in casa. Chi è stato comunista o fascista può avere delle ragioni da accampare per la propria scelta ed è giusto cercare di comprenderle razionalmente, ma quel che è insopportabile è che continui a difendere l’indifendibile. Qualcuno si aspetterà che detesti Saramago per le sue posizioni contro Israele e gli ebrei, ma dirò piuttosto che è la rivendicazione ostinata e assolutamente acritica del comunismo che trovo disgustosa.
Egli raccontò di aver letto una frase di Marx ed Engels nella “Sacra Famiglia” che fu per lui come la via di Damasco, quel che lo spinse a credere che soltanto il comunismo avrebbe potuto soddisfare i suoi aneliti di giustizia. La frase era: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Fin qui nulla da dire. Possiamo accogliere questa come una descrizione delle motivazioni che hanno condotto tante persone in buona fede nel seno del comunismo. 
Ma molti anni dopo, di fronte a un Bernard Pivot che voleva sapere perché continuasse a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, rispose di essere un comunista «ormonale» e che il suo rifiuto di rinnegare il comunismo era un «non possumus» biblico. «Ho osato scrivere che il socialismo – e a maggior ragione il comunismo – è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione».
Lasciando da parte questa ridicola manifestazione di vanità, ci si chiede quale senso morale animi chi, alla memoria di milioni di morti trucidati in nome di un principio di igiene sociale, opponga un gelido «non possumus». In questa sordità morale c’è tutta la ferocia dell’ideologia stalinista. E qual è la coerenza tra il «non possumus» e la luce che illuminò Saramago sulla via della sua Damasco? Forse il gulag fu un modo di «formare le circostanze umanamente»?
Come stupirsi allora che una persona di un simile livello intellettuale e morale abbia detto che Gaza è peggio di Auschwitz (da cui, come è noto, gli ebrei lanciavano razzi sulle città tedesche); e che gli ebrei «hanno superato i maestri» e non meritano più «comprensione per le sofferenze patite durante l’Olocausto»? Come stupirsi che abbia detto che «Geova, o Jahvé, o comunque si chiami, è un dio astioso e feroce che gli israeliani mantengono permanentemente aggiornato»? È lui ad aver superato il maestro: persino Stalin riuscì ad essere antisemita senza ricorrere all’arsenale dell’antigiudaismo religioso.


(Tempi, 7 luglio 2010)