lunedì 26 aprile 2010

Così trasformano le scuole in ospedali



 Stefano Zecchi ha denunciato l’ennesima tappa della dittatura degli esperti: l’introduzione della misura dello “stress-lavoro correlato”, che produrrà un’altra proliferazione di “specialisti” di dubbia competenza ma dotati del potere supremo di controllare lo stato psicologico altrui mediante test, questionari, protocolli e altri marchingegni pseudoscientifici. È un processo di “medicalizzazione” della società che trasforma tutti in malati monitorati, misurati e controllati da una corporazione di esperti al di fuori di ogni controllo.
Non illudiamoci, il processo è planetario e resistervi sarà difficile: l’epicentro sono gli USA, dove dilaga la manìa di considerare ogni stato come una patologia da curare e di sostituire concetti qualitativi con quantità, misure, test e punteggi anche se i risultati di questi metodi sono spesso mediocri. Un esempio clamoroso di questo andazzo è la classificazione dei comportamenti dei bambini vivaci e iperattivi – “con l’argento vivo addosso”, si diceva un tempo – come una malattia che molti studiosi seri considerano una scandalosa invenzione: il suo acronimo è AHDH, Attention Deficit Hyperactivity Disorder. Che vi siano bambini del genere è arcinoto e, in alcuni casi, si cade nella patologia. Ma codificare in generale simili comportamenti come una malattia è folle e pericoloso perché rischia di classificare come malati persone perfettamente normali e scarica le famiglie di ogni responsabilità trasformando un problema quasi sempre educativo in una faccenda di dottori e psicologi. Negli USA l’AHDH è stato diagnosticato in 17 milioni di bambini. L’anno scorso il sedativo Ritalin, prodotto allo scopo, è stato ricettato 20 milioni di volte con un giro di affari stratosferico. Una celebre ballerina, Elisabetta Armiato, ha ricordato di essere stata una bambina iperattiva che saltava sul tavolo da pranzo. Proprio per questo ha deciso di battersi per il divieto dello screening di massa dell’AHDH nelle scuole italiane e per il consenso informato prima della somministrazione di Ritalin.
Ma mentre ci si batte per turare una falla se ne aprono altre più gravi. È in discussione in Parlamento una legge, pare approvata da uno dei due rami (e già a livelli regionali), che è frutto di un trasversalismo politico progressista saldato dal comune intento di fare il futuro. Essa codifica l’esistenza di una nuova malattia detta DSA, Disturbi Specifici di Apprendimento. Di che si tratta? Il DSA raggruppa “disturbi” diversissimi tra di loro, che assieme non fanno una sindrome, ma sono riunificati solo perché legati ai processi di apprendimento, anche se ciò accade per altre malattie di diversissima natura: e questo già la dice lunga sulla serietà “scientifica” di chi ha messo in piedi un simile artefatto.
Il DSA include la dislessia, e fin qui vi è poco da dire, trattandosi di un disturbo noto, anche se si dice che fossero dislessici Newton e Einstein, ovvero i più grandi scienziati della storia. Include poi la “disgrafia”, «disturbo di scrittura che si manifesta in difficoltà della realizzazione grafica». Già qui c’è da saltare sulla sedia. In una scuola, in cui non è più considerato necessario insegnare a come tenere una penna in mano, coloro che hanno difficoltà nello scrivere o nel disegnare sono una massa imponente. E non è un ritornello quotidiano che le capacità ortografiche dei bambini delle primarie sono disastrosamente modeste? Ebbene, anche la “disortografia”, pomposamente detta “difficoltà nei processi linguistici di transcodifica”, è un disturbo incluso nel DSA. Conclude il quartetto la “discalculia”, «disturbo che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri». Anche qui giova ricordare le carenze matematiche degli studenti sistematicamente attestate dai test internazionali e verificabili quotidianamente da qualsiasi insegnante: la massa dei “malati” di discalculia è un esercito. Per la mia specifica competenza matematica ho approfondito la questione. Leggendo alcuni materiali “specialistici”, ho constatato che i criteri di demarcazione della “malattia” sono quanto mai vaghi e mal definiti. Nelle definizioni si fa spesso ricorso a idee dei meccanismi del calcolo mentale completamente fasulle. Senza contare che si trascura il contesto storico-sociale: nel Settecento il matematico Eulero era in grado di fare calcoli mentali di mostruosa difficoltà che, essendo cieco, dettava a un aiutante. Oggi anche il più valente matematico non sarebbe in grado di avvicinarsi da lontano a simili capacità. Esiste un’evoluzione storica delle capacità di calcolo e di memorizzazione che è stata ampiamente studiata e che questi “specialisti” ignorano. Oggi, per molte ragioni anche legate agli sviluppi tecnologici, siamo al livello storico più basso delle capacità di calcolo mentale, aggravato dalla crisi della scuola e da teorie didattico-pedagogiche inappropriate. Tralascio di dire quale sia il livello dei rapporti che ho consultato, scritti in una lingua che potrebbe configurare la patologia di “disgrammaticìa” e “dis-sintassìa”. Infine, ho cessato di avere rispetto per queste elucubrazioni quando ho sentito dire da uno di questi “specialisti” che gli studenti in sedia a rotelle sono strutturalmente poco abili nel calcolo mentale perché questo sarebbe legato alle capacità motorie: basti pensare che uno dei più celebri fisici e matematici viventi, Stephen Hawking, è affetto da atrofia muscolare progressiva.
Tuttavia, si sta preparando il più gigantesco processo di trasformazione della scuola italiana in ospedale: la legge riconosce la diagnosi di DSA effettuata dal Servizio Sanitario Nazionale, la quale viene comunicata dalla famiglia alla scuola. In altri termini, le famiglie che mirano a trasformare gli insuccessi scolastici dei loro figli in malattia da curare, possono mettere fuori gioco scuola e insegnante mediante psicologi e psichiatri, notoriamente esperti in grafismo, calligrafia, ortografia e matematica. Viceversa, genitori di vedute più rigorose possono vedere il loro figlio sequestrato dal processo dell’istruzione e consegnato all’ambulatorio: difatti la legge prevede che le scuole possano apprestare interventi per individuare casi di DSA «sospetti» (dàlli all’untore!) e comunicare alla famiglia che il loro figlio è un anormale. Già c’è chi stima tra il 3 e il 5% la prateria su cui pascolerà il grande affare del DSA.
Per comprenderne fino in fondo le devastanti implicazioni, va sottolineato che la legge garantirà «appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica», una «didattica individualizzata e personalizzata», e la dispensa da «prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere». I provvedimenti riguardano persino le famiglie, le quali acquisiscono il diritto a orari di lavoro flessibili. Insomma, se tuo figlio passa dalla categoria di insufficiente in matematica a quella di discalculico, ottiene il successo formativo garantito, e tu stai pure a casa. Nel frattempo, avanza inarrestabile la dittatura degli specialisti che, per affermarsi, ha bisogno di una società fatta di malati, di disturbati e disadattati da misurare, monitorare e curare.
Resta soltanto da confidare nei vincoli della crisi e del rigore del Ministero dell’Economia per arginare questo autentico delirio.
 (Il Giornale, 22 aprile 2010)

giovedì 22 aprile 2010

Basta un’eruzione e la "scienza" ci dice che l’universo è un mistero


«Uno dei più grandi misteri dell’Universo è il fatto che non sia un mistero. Siamo in grado di comprendere e prevedere il suo funzionamento a tal punto che se un uomo comune del Medio Evo si trovasse a vivere tra noi si convincerebbe che siamo dei maghi». Così scriveva nel suo “Perché il mondo è matematico” il noto astronomo e autore di libri di cultura scientifica, John D. Barrow. È un trionfalismo che ci accompagna imperterrito, per esempio nella divulgazione di massa alla Piero Angela: la scienza ormai ha reso trasparente tutto, dalla pietra al cervello. Altri non si spingono a tanto, ammettendo che non sappiamo e non sapremo mai tutto, ma ribadendo che le verità acquisite dalla scienza poggiano su solida roccia e che soltanto la scienza ha diritto a dirsi “cattolica”. E guai a dire il contrario: si rischia – che dico – si ha la certezza dell’anatema, di ottenere il marchio infamante di “irrazionalista”, “nemico della scienza e della ragione”, “seguace di maghi, fattucchiere e oroscopari”. È una campagna che va avanti da mezzo secolo, e i cui paladini sono schierati attorno alle bandiere del progresso, del libero pensiero, della lotta contro l’oscurantismo.
Poi esplode il vulcano Eyjafjiallajökul e improvvisamente la musica cambia. Il Corriere della Sera dedica una pagina intera alle implicazioni espitemologiche dell’evento intitolandola nientedimeno che: “La natura imprevedibile è più forte di noi”. Passi il “più forte di noi”, ma quell’“imprevedibile” lascia di stucco. Se l’avesse detto chi da tempo contesta lo slogan dell’onnipotenza della scienza, e sostiene che è “razionale” e “scientifico” ammettere che la scienza si scontra contro gravi difficoltà di previsione, che è sempre più difficile ottenere leggi generali, che la scienza di base è in grave stallo, sarebbe partito l’anatema. Ma a chi è uso sostenere che l’unica fonte di verità è la scienza è consentito spararla grossa. Come Margherita Hack che non vuol spingersi a dire «che la scienza sia impotente» – non esageriamo, nessuno si spinge a tanto – ma arriva alla conclusione che «non tutto è prevedibile». Eppure – consola Hack – la scienza serve comunque a qualcosa, anche quando prevede l’assoluta imprevedibilità – e anche questo è un po’ troppo cattivo con la povera scienza. Difatti «non sappiamo quando il Vesuvio andrà in eruzione ma di certo prima o poi accadrà». Di certo? Per quanti sforzi abbiamo fatto non abbiamo capito perché dall’assoluta imprevedibilità di quando possa accadere un’eruzione discenda la certezza del suo accadimento. Deve averci messo lo zampino un veggente.
Secondo Paolo Rossi la vicenda del vulcano distrugge «il mito della prevedibilità dei fenomeni fisici ma anche del corso storico». Difatti, curiosamente, Rossi coglie l’occasione per sfogarsi contro gli sta antipatico anche se non c’entra nulla: esemplifica come errori madornali le previsioni di padre Lombardi che vedeva i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro e le previsioni apocalittiche di Asor Rosa. Più attinente sembra la critica della pretesa degli economisti di controllare scientificamente il mercato. Ma sarebbe stata più pertinente una critica delle previsioni di costruire entro breve tempo una macchina pensante, un robot autonomo, e di tutto l’armamentario di speculazioni a base di risonanza magnetica con cui si vuol far credere che staremmo sul punto di tradurre pensieri in termini di processi chimico-fisici cerebrali. Ma è meglio prendersela con padre Lombardi o Asor Rosa.
Per parte sua, a Emanuele Severino la tesi che la Natura sia più forte della Tecnica infastidisce non poco. Lui vede la crisi del vulcano come una pausa nel percorso con cui la Tecnica va verso il dominio del mondo e una prova che, pur combattendo alla pari con la Natura, ancora non è in grado di tenerle testa del tutto. Ciò sarebbe dovuto anche al fatto che le leggi della scienza (su cui la tecnica è basata) sarebbero ipotetiche, da cui discende, ad esempio, che «un corpo, abbandonato a sé stesso, da un momento all’altro, invece di cadere verso il basso potrebbe andare verso l’alto», da cui una ribellione radicale della Natura che mette in discussione il dominio della Tecnica. Non è chiaro se il corpo che sale verso l’alto siano le polveri del vulcano: in tal caso, nessun problema, ci ricadranno presto sulla testa, confermando le leggi della fisica. Oppure si vogliano riproporre le tesi dell’integralista islamico Al-Ghazali che quasi costarono la testa ad Averroé: solo che Al-Ghazali parlava della libertà di Dio di governare la natura a suo piacimento e non di una Natura dotata di libero arbitrio.
Questo è quanto ci ha offerto la lettura del mattinale scientifico all’ombra del vulcano. Peraltro è certo che, depositatesi le polveri, ricomincerà la solfa che «il più grande mistero è che non vi siano più misteri».

(Il Foglio, 20 aprile 2010)

domenica 18 aprile 2010

Crisi della cultura numerologica e i problemi della valutazione

La qualità si può misurare?

«Siamo di fronte a una cultura dei numeri in cui istituzioni e individui credono che si possano conseguire decisioni eque mediante la valutazione algoritmica di alcuni dati statistici .... incapaci di misurare le qualità i decision-makers sostituiscono la qualità con i numeri che essi possono misurare» (Dal documento "Citation Statistics»).


Riporto un confronto pubblicato su Avvenire una decina di giorni fa sul tema della misurazione delle qualità e dell'ossessione numerologica.
Gli specialisti della misurazione delle qualità reagiscono in modo irritato a quello che sentono come una messa in discussione del loro mestiere.
Ma non è conveniente nascondersi dietro un dito.
La misurazione delle qualità fa acqua da tutte le parti e mette in discussione i procedimenti cosiddetti "oggettivi" nella valutazione: è un problema molto attuale nel campo dei sistemi dell'istruzione e della ricerca scientifica.
Frattanto, le massime autorità in tema di numeri proscrivono sempre più apertamente e radicalmente l'uso di metodi numerici nella valutazione della ricerca.
Poco più di un anno fa istituzioni prestigiose come la International Mathematical Union, l'International Council of Industrial and Applied Mathematics, e l'Institute of Mathematical Statistics hanno prodotto un documento Citation Statistics che demolisce teoricamente i metodi bibliometrici e, in particolare il citation index, concludendo con un'affermazione molto netta: «Numbers are not inherently superior to sound judgements».

È seguita una presa di posizione di tutte le più note e prestigiose riviste di storia e filosofia della scienza del mondo, Journal under Threat , che rigetta il metodo di valutazione numerica ERIH e preferisce rinunciare a tutti i vantaggi (finanziamenti) derivanti dall'essere valutati in questo modo.

Infine di recente è intervenuto un'altra personalità di prestigio, il Presidente di SIAM, Society for Industrial and Applied Mathematics, Douglas N. Arnold. In un durissimo articolo, Integrity under attack: The State of Scholarly Publishingin cui denuncia il modo scandaloso con cui molte riviste e autori usano abilmente i metodi di valutazione quantitativa per trarne vantaggi a scapito della serietà della ricerca, chiede esplicitamente la soppressione dell'uso di metodi bibliometrici per la valutazione.

Sarebbe il caso di prendere atto di questi sviluppi.
Per ora riguardano la ricerca scientifica e, di conseguenza, ovviamente la valutazione del sistema universitario.
Ma è bene guardare in faccia la realtà. La problematica è unitaria. Le implicazioni sui metodi di valutazione numerica dei sistemi scolastici sono evidenti.

Quanto all'idea generale che si possono "misurare" - non tanto attribuire generiche stime numeriche, come i voti a scuola, ma "misurare" in modo preciso e oggettivo - le qualità, è un modo per buttare al cestino le acquisizioni di qualche secolo di metodologia della scienza in nome di considerazioni generiche ed è espressione di una certa fatuità culturale e teorica dilagante.

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Perché sì
Allulli:

Con la sua consueta serenità e pacatezza Giorgio Israel, in un articolo pubblicato sulle colonne di questo giornale, ha dato del ciarlatano a chi ha il coraggio di parlare di "misurazione della qualità"; se, invece di insultare, si documentasse su ciò di cui parla, scoprirebbe che la qualità non solo è misurabile, ma è di fatto misurata tutti i giorni. Innanzitutto che cos’è la qualità? Le definizioni che ne vengono date convergono sul principio che la qualità è il grado in cui un processo od un prodotto od un servizio od una prestazione soddisfa le attese dell’utente/cliente/consumatore (che a sua volta può essere singolo o collettivo).
 Tutti noi misuriamo ogni giorno la qualità di ciò con cui veniamo a contatto: una macchina, una pietanza, un servizio pubblico; tuttavia le nostre attese rispetto al prodotto/servizio spesso sono diverse, in quanto ognuno matura aspettative diverse e molto personali. A parità di prestazione il giudizio che emerge dai diversi "giudici" può essere dunque molto diverso. Questo non significa che la qualità non si può misurare, ma solo che il giudizio che viene attribuito è frutto di una elevata soggettività.
 Che cosa fa Israel quando assegna i voti ai suoi studenti all’università: non esprime forse una misura quantitativa di una prestazione qualitativa? È tutto il sistema scolastico a basarsi su giudizi numerici di prestazioni qualitative. Il problema dunque non sta in questo; sta piuttosto nel fatto che la prestazione viene misurata in modo del tutto soggettivo e senza rendere chiari, espliciti e trasparenti i criteri di giudizio. Su quale base si assegna un voto ad una interrogazione o ad un compito scritto? Sulla base della conoscenza della materia, della vivacità espositiva, della logica argomentativa, della correttezza grammaticale, sintattica e lessicale della esposizione?
 Probabilmente la maggior parte dei docenti usa tutti questi criteri, ma sicuramente ognuno di loro li "pesa" diversamente, come sa chiunque abbia reminiscenze di scuola. Su quale base si assegna 25 o 27 in un esame universitario? Anche in questo caso i criteri di giudizio divergono profondamente, al punto che in alcune facoltà si possono trovare medie altissime, mentre in altre i voti sono molto più bassi; lo stesso fenomeno accade con i voti scolastici.
 E su quale base si giudica una scuola? Lo sa Israel che gli ispettori inglesi dell’Ofsted, che lui cita ad esempio, prima di entrare in una scuola analizzano tutti gli indicatori sul funzionamento della scuola, sui risultati dei test, sugli abbandoni, in modo da disporre di punti oggettivi di riferimento per il loro giudizio? E lo sa che i giudizi degli stessi ispettori vengono formulati sulla base di criteri molto precisi, e non solo di un generico apprezzamento della "qualità"? Insomma la qualità viene misurata tutti i giorni. Ecco allora la necessità di confrontarsi su come "misurare la qualità". Non per rendere del tutto oggettivo il processo di valutazione, perché non lo sarà mai. Però per renderlo almeno un po’ meno casuale ed arbitrario di adesso.

Perché no
Israel:

Si rassegni Giorgio Allulli. Non ho bisogno di documentarmi per sapere quel che mi dice la metodologia della scienza: le qualità non si misurano, tutt’al più se ne può dare un giudizio tradotto in indicatori numerici. È quel che faccio quando assegno un voto: di certo, non misuro assolutamente nulla. Non misuro neppure se dico che il mare ha forza 8, figuriamoci se posso misurare la conoscenza, la vivacità, la competenza, l’intelligenza e tutto ciò che uno studente mette in opera in una prova d’esame. Sono concetti che non ammettono una definizione oggettiva e tantomeno possiedono un’unità di misura. E dove non c’è unità di misura non c’è misurazione.

Non è solo questione di divergenze di giudizi, è l’oggetto stesso che si ribella a una definizione univoca. Per esempio, si può fare una statistica e rilevare che la maggioranza ritiene che A sia più bello di B, il che ha qualche interesse; ma chi pensa che B è più bello di A non si troverà mai nella condizione insostenibile di chi pretenda che una formica è più alta di un elefante. La definizione di qualità di Allulli (ed è singolare cercare definizioni formali di un concetto che è al centro della riflessione filosofica da secoli) riconduce al concetto di utilità. Consiglio di leggere la celebre corrispondenza tra Henri Poincaré e Léon Walras in cui il primo spiega perché l’utilità non è misurabile (e il secondo concorda). Come non è vero che l’utilità è misurabile, non è vero che ogni giorno misuriamo qualità: ne diamo valutazioni soggettive, come quelle circa la mia serenità e pacatezza.

Ciò detto, è ragionevole perseguire valutazioni il più possibile concordi e accettate. Ma questo non si fa perseguendo la pretesa illusoria di costruire una metodica della valutazione sul modello delle scienze esatte. La valutazione è un processo culturale e sociale che non può essere astratto dai contenuti. Solo attraverso il confronto culturale e di merito si realizza un processo di valutazione con un elevato grado di accettazione e di fondatezza. Apprezzo il sistema delle ispezioni purché basato su giudizi di merito. Ritengo delicato l’uso dei test e assurdo l’uso di parametri come gli abbandoni che finiscono col premiare il lassismo.

Conosco il sistema Ofsted ma non ritengo una buona idea lodarlo indipendentemen-te dal fatto che gli studenti inglesi hanno livelli di preparazione disastrosi. Come ha osservato Cesare Segre, le valutazioni debbono essere fatte dai competenti. Aggiungo io, con un sistema di controlli incrociati che stimoli un processo complessivo di confronto.



Trovo preoccupante l’emergere di una corporazione di "valutatori" che manifesta una tendenza all’autoreferenzialità di cui è sintomo la reazione aspra quando qualcuno osa metterne in discussione la dottrina. È bene che anche i valutatori accettino di essere valutati. Non sono il solo a considerare con estrema perplessità la prospettiva di mettere la scuola in mano a chi ritiene che esista una scienza della misurazione delle qualità. Consiglio di leggere l’articolo Vite a punti ("Corriere della Sera" del 7 marzo) per rendersi conto di quanta insofferenza e degrado culturale stia creando l’ossessione numerologica.



(Avvenire, 8 Aprile 2010)

domenica 11 aprile 2010

Una replica al direttore di Confindustria-Education

Il direttore controreplica? No ma anche sì.
Difatti si legge sul sito di Tuttoscuola la notizia che egli avrebbe inviato un mail a una settantina di persone "autorevoli" per commentare la mia replica al suo intervento sul Sussidiario; e che questa mail avrebbe come oggetto "Israel straparla". Del suo contenuto l'unico che non sa niente e ancora non ha capito niente è il sottoscritto. Il che - stare del tutto fuori dai pettegolezzi - considero un autentico titolo di onore.
La redazione di Tuttoscuola definisce l'"oggetto" del mail non diplomatico e inelegante. Ancor più inelegante è rispondere a questo modo, facendo appello al consenso delle "autorità" in una forma privata che poi diviene pubblica senza che il messaggio lo diventi. Tanto più che è un'ineleganza che segue a un'ineleganza. Difatti, le "critiche" di Gentili culminavano nell'affermazione che la linea da noi scelta porta alla produzione di "furfanti"...
A queste ineleganze se ne aggiunge una terza: quella di mettere in giro la voce falsa che vi sarebbero dissensi e imbarazzi nella commissione. Falsa, come ha ben precisato sempre su Tuttoscuola il consigliere Max Bruschi.

Un modo davvero civile di discutere: invece di ricorrere ad argomenti si cerca di delegittimare e isolare il contraddittore. Un tipico comportamento di chi non ha più niente da esibire salvo che la mazza del potere.

Frattanto, il dibattito vede l'intervento del professor Tagliagambe che evoca nientemeno che Florenskij come precursore delle competenze... Forse si sarà confuso con Makarenko e le sue comuni educative sovietiche.
Le due frasette di Florenskij da lui citate sono quasi coincidenti con molte affermazioni che ho fatto nel mio articolo, e le sottoscrivo senza esitazioni. Resta il fatto che il poveretto aveva a che fare con le tesi del professor Tagliagambe quanto con la danza classica. 
Registriamo anche che ci viene proposta una definizione di competenza divergente da quella corrente, e in aperta collisione, per esempio, con quella dell'esperto Thélot (v. il post precedente) e, difatti, con un aperto rimprovero all'Ocse-Pisa. Tanto per dare conferma che siamo in piena scolastica. L'unica cosa che manca, e che sarebbe benvenuto, è il rasoio di Occam.


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Caro direttore,
sono assolutamente sconvolto dal fatto che mail private possano essere rese pubbliche. E' un modo di operare incivile, indegno di chi si occupa di educazione. Ovviamente, ciò non riguarda chi pubblica, ma chi trasmette materiali. A questo punto colgo l'occasione per ripetere quanto privatamente (e sottolineo privatamente) ho scritto: e cioè che non intendevo entrare in baruffe (non lo scontro tra Israel e Gentili, ma alcuni commenti scambiati per mail), riservandomi di intervenire pubblicamente alla fine del dibattito che ho voluto pubblico. Lo riporto integralmente:
"Carissimi,
non mi ero reso conto che la risposta di Claudio Gentili (cui avevo scritto privatamente) fosse stata spedita a una così qualificata platea. Sforzo dunque la mia congiuntivite (spero scuserete eventuali errori dovuti alla fatica di scrivere) e preciso quella che è la mia posizione ed evito di entrare in baruffe che non fanno parte del mio carattere e del mio modo di operare per il bene pubblico.
Mi limito a precisare che conosco perfettamente le persone che mi sono compagne di viaggio e che ho avuto il privilegio di scegliere. Non abbiamo magari posizioni identiche, ma abbiamo un "idem sentire" e una stessa valutazione dei problemi. Altrimenti, non ci sarebbe stato possibile lavorare così bene (sottolineo, così bene, in assoluto e ancor più in rapporto ad alcuni prodotti "innovativi" che ho avuto modo di vedere, e che pure hanno avuto tempi lunghissimi di maturazione) in così poco tempo.
Le indicazioni per i licei sono il frutto di un lavoro, guidato da un ristretto gruppo tecnico, che si è avvalso del "top" della nostra accademia e dei nostri insegnanti liceali, per una volta fianco a fianco (anche "fisicamente"). Abbiamo tenuto conto delle esigenze espresse dal mondo universitario (che, lo ricordo, rappresenta lo sbocco privilegiato dei nostri studenti liceali) per cercare di ridurre, nel tempo, le carenze riscontrate. Abbiamo anche avuto il privilegio di poter lavorare in anteprima sui nuovi quadri OCSE per la matematica (cosa che forse Claudio non sa). Abbiamo concatenato al "profilo" (che contiene le competenze in uscita) già approvato nel regolamento ciascuna disciplina. Abbiamo fissato gli OSA irrinunciabili e gli obiettivi generali, lasciando grande libertà alla scuola e agli insegnanti di arricchire e di poter usare la metodologia didattica che ritengono più opportuna.
Su questo, in piena sintonia con il ministro, abbiamo lavorato. Sulla realtà, insomma. Abbiamo avuto sostegni importanti. Certo, tutto è migliorabile, e per primo, ormai settimane fa, ho invitato lo stesso Gentili a farmi esempi concreti. Ma siamo convinti che la strada sia quella giusta.
Dopo di che, se ciò significa passare per reazionario, mi dichiaro reazionario.
Ritengo, ovviamente, per quanto mi riguarda, chiusa ogni polemica. Non ritornerò più sull'argomento, se non a chiusura del dibattito pubblico".
Concludo: il tutto mi sembra un maldestro tentativo, compiuto da chi non mi conosce bene, per cercare di intralciare il lavoro della commissione. Tentativo destinato ad andare a vuoto. Guano nel ventilatore. Ma sono adeguatamente munito di impermeabile. Ne approfitto per confermare la stima e l'amicizia verso Giorgio Israel, un combattente senza il quale, probabilmente, la nostra battaglia per raddrizzare la scuola sarebbe stata molto più difficile se non impossibile.
Prof. Max Bruschi

Il buon professore mette in castigo le idee degli esperti


Al Convegno che si è svolto a Roma l’8 aprile sulla «scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze» ha partecipato Claude Thélot, già presidente di una commissione sul futuro della scuola francese sotto la presidenza Chirac. Il Corriere della Sera l’ha intervistato presentandolo come «uno dei più grandi esperti di problemi scolastici». Leggere cosa ha detto è istruttivo per capire chi sono questi “esperti” e in quali mani si vuole mettere la scuola europea.
Una premessa. La scuola non va bene in Francia. Lo ammette lo stesso Thélot, asserendo che circa il 15% per cento dei giovani esce dalla scuola dell’obbligo con conoscenze insufficienti e grandi difficoltà nell’applicarle, più o meno nella media europea. In realtà, se così fosse non sarebbe poi un gran disastro. Ma le cose stanno molto ma molto peggio. Per rendersene conto basta leggere il libro di Laurent Lafforgue e Liliane Lurçat, “La disfatta della scuola. Una tragedia incompresa” (ora tradotto in italiano da Marietti); e anche leggere i tanti rapporti di ricercatori francesi come Catherine Krafft. Il quadro che presentano è quello di un disastro senza precedenti, altro che 15%: intere generazioni che non sanno più scrivere e far di conto. Come accade da noi. L’altro giorno un collega si metteva le mani nei capelli di fronte a persone vicine ad andare a insegnare che ancora non capiscono perché la frazione ¼ si possa anche scrivere 0,25.
Lafforgue è un matematico di prim’ordine, una Field medal, l’equivalente del Nobel per la matematica. Nel 2005 ha dovuto dimettersi dall’Alto Consiglio dell’Educazione francese per aver scritto privatamente al presidente del medesimo che era assurdo chiedere consulenze a funzionari ed “esperti”: «Per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Vista la composizione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU la prospettiva è ormai realtà… Ma Lafforgue è ingenuo come tutte le persone che credono ancora di poter parlare il linguaggio della verità e sa che chi ha ridotto la scuola francese in questo stato sono proprio i cosiddetti “esperti”, i teorici della “didattica delle competenze”, della scuola dell’autoformazione e del successo formativo garantito. Ha pagato caro per dirlo ma chiunque legga il suo libro o visiti il suo sito vi troverà una miniera di idee e di osservazioni che potrebbero davvero servire per iniziare a porre rimedio al disastro.
Si inizia a capire così perché un Thélot limiti la percentuale degli insuccessi a un modesto 15%: perché non può ammettere che le cose vadano tanto male, visto il potere che le persone come lui hanno avuto ed hanno sulla scuola, ma, al contempo, deve far capire che bisogna continuare a propinare la sua medicina. E cosa si frappone al successo totale della “cura”? In primo luogo, i professori, quei maledetti professori che non si adattano a fare quel che prescrivono gli esperti.
Sentite: «Scuola e professori tradizionalmente insistono sulle conoscenze: invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e occuparsi più della crescita dei propri alunni». «Il docente – prosegue Thélot – deve essere prima di tutto uno specialista del successo dei propri studenti».
A questo punto qualsiasi persona ragionevole, non corrotta dal modo di “ragionare” aberrante di queste persone, vede in modo plateale la contraddizione. Che cos’è il “successo” a scuola? Conoscere e saper usare le conoscenze. Difatti non risulta che la scuola si occupi di altro che di “saperi”. Proprio Thénot lo conferma lamentando che troppi ragazzi abbiano insufficienti conoscenze e capacità di applicarle. E allora, come ottenere questo successo? Non trasmettendo conoscenza, per carità, ma trasformandosi in specialisti del successo degli studenti… Molto facile in realtà: basta trasformare la scuola in un paese dei balocchi, divertirsi di più e alla fine promuovere tutti. Successo formativo garantito.
Ma, risponderà l’esperto, non è questo che volevo dire. Intendevo che la vecchia scuola è troppo legata alla «trasmissione di conoscenze astratte». Così ci si vuol far credere che siano stati loro a scoprire che non basta ingurgitare passivamente nozioni, che bisogna assimilarle e saperle usare attivamente. In realtà, questa idea risale a Socrate ed è stata largamente applicata. Nel Regio Decreto istitutivo dei licei moderni in Italia, risalente addirittura al 1913, si poteva leggere:
«L’insegnante non trascurerà di sottoporre a osservazione o a esperimento la previsione, cui sarà pervenuto col ragionamento, per constatare se essa corrisponda alla realtà […] Gli alunni siano sempre attivi, trovino da sé, sotto la guida del professore, e non ricevano da lui solo direttamente il sapere bello e formato. Essi, entro certi limiti, devono ripetere per proprio conto e per vie abbreviate, il lavoro compiuto dalle passate generazioni nella conquista del sapere scientifico. […] non si dimentichi mai che si sa bene solo quello che si sa fare o applicare. […]».
Queste cose, chiare a qualsiasi buon insegnante, questi signori le propagandano come la scoperta dell’ombrello, sotto la voce della distinzione tra “conoscenze” e “competenze”. La scuola delle “conoscenze” sarebbe quella vecchia e “trasmissiva”, la loro scuola è quella delle “competenze”. Poi se chiedi come definirebbero le competenze, farfugliano centinaia di definizioni. Nella loro confusione mentale non riescono più neppure a mantenere la distinzione di cui sopra: competenze sono «conoscenze, capacità di applicarle in diversi contesti, attitudini e atteggiamenti mentali che favoriscono l’iniziativa autonoma e la capacità di apprendere e lavorare insieme agli altri». Bella novità. È soltanto cambiato il nome. In un’ottica minimamente corretta di cosa sia la scuola, queste capacità sono sempre rientrate nell’idea di conoscenza. Anzi, senza la capacità di dominare autonomamente i concetti appresi, non esiste alcuna conoscenza.
E allora perché questi vaneggiamenti nominalisti? Ma è chiaro. Perché, al fine di assoggettare la scuola al dominio di “esperti” che hanno come unica risorsa le loro teorie gestionali autoreferenziali e che, richiesti di spiegare come si dovrebbe far apprendere la matematica o la storia, non saprebbero produrre altro che i balbettamenti  dell’ignoranza, bisogna distruggere contenuti, discipline, conoscenze specifiche e ridurre tutto a metodologia. Occorre fare degli insegnanti i meri esecutori dei precetti degli “esperti”, automi deprivati dell’unico strumento autonomo che possiedono: la conoscenza disciplinare.
E allora, per salvare la scuola bisogna proprio confidare negli insegnanti, quelli bravi e capaci, s’intende. Quelli che uno di questi “esperti” ha vergognosamente definito “sacca di resistenza”.
(Il Giornale, 9 aprile 2010)

lunedì 5 aprile 2010

Intervento al Convegno “Sistema universitario: criticità e prospettive” promosso dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà Camera dei Deputati, 18 marzo 2010

POLEMICHE SU PEDOFILIA E ANTISEMITISMO

Intervista a "Il Riformista"

 Di norma non rilascio mai interviste se non chiedendo una rilettura del testo. Difatti, la sintesi da parte di un cronista di una conversazione a voce può modificare in modo sensibile quel che si intende dire. Anche questa volta ho fatto così. Ma il giornale non ha tenuto conto, malgrado le promesse, della mia richiesta e ha pubblicato la sua sintesi che non corrisponde bene al mio pensiero. Per giunta, ha intitolato l'intervista in modo assurdo: «Una moratoria sull'uso della parola Shoah». Ora, non sono così imbecille da pensare che sia il caso di interdire l'uso della parola Shoah... Piuttosto ho proposto di smettere di ABUSARE della parola Shoah. E tra una moratoria dell'abuso di una parola e del suo uso corre un abisso. Non a caso subito c'è chi se ne è approfittato per fare ironie fuori luogo.
Questo è il testo "autentico".

“Sono convinto che il paragone con la Shoah per indicare ogni situazione efferata e odiosa sia molto pericoloso. E propongo una vera moratoria dell’abuso di un simile riferimento, perché tutte le menti si raffreddino e si ragioni seriamente”. 
Professore, quale è la sua opinione sull’intervento del padre cappuccino?
Conosco personalmente padre Cantalamessa, e sono certo delle sue migliori intenzioni. Penso che questa vicenda costituisca l’ennesima prova di quanto sia sbagliato usare l’Olocausto come sinonimo di ogni efferatezza. Proprio la rappresentazione della Shoah come crimine senza paragoni incita a strumentalizzarlo come riferimento per qualsiasi cosa si voglia condannare, fino a strumentalizzazioni odiose. Penso a quel corteo di insegnanti che sfilarono per protestare contro la riforma Gelmini indossando sul petto una stella di David. Su questa strada si rischiano infortuni e si rischia di offendere pur senza cattivi intenti. Il nostro dovere ora è di raffreddare le menti – anche il mio primo istinto ripensando a tanta parte della mia famiglia sterminata nei lager è stato di sdegno - e di ragionare rigorosamente: pertanto propongo una moratoria sull’abuso della parola Shoah e del riferimento allo sterminio del popolo ebraico quando si vuole denunciare qualcosa che non aggrada.
Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, si dice “incredulo da un paragone ripugnante e offensivo verso le vittime degli abusi e verso le vittime dell’Olocausto”. E, parafrasando la preghiera cattolica sulla conversione degli ebrei, “prega Dio affinché illumini i loro cuori”.
Guardi, non ritengo che si debbano accendere altre polemiche su temi su cui ve ne sono state abbastanza. Dopo quelle polemiche vi è stata la visita del Papa in cui non è stata riaperta né mi pare il caso di riaprirla. Piuttosto, il tema che solleverei è un altro: il silenzio sul diritto di Israele e del popolo ebraico al suo legame storico e spirituale con Gerusalemme. Vi è pieno diritto a criticare la politica israeliana, ma ciò non autorizza il mondo islamico a proclamare che Gerusalemme è la “pupilla del suo occhio” e che l’ebraismo non ha alcun diritto su di essa. Il silenzio generale, incluso quello della Chiesa, su questo scandalo è ciò che ha reso amara questa Pasqua ebraica.
L’Osservatore Romano denuncia “una propaganda grossolana contro il Papa e i fedeli, bersaglio di un’ignobile operazione diffamatoria e di un’offensiva mediatica destabilizzante”.
Su questo giudizio mi asterrei da giudizi affrettati e andrei coi piedi di piombo. Ovviamente nulla deve essere taciuto in merito alla vicenda degli abusi sui minori da parte di appartenenti al clero cattolico: ricordo sempre che le responsabilità sono individuali, e che è sempre necessaria un’estrema cautela. Mi colpisce il fatto che non si sia vista una campagna altrettanto aggressiva e indignata verso la pedofilia non “religiosa”, verso le lobbies che la sostengono apertamente come se fosse un diritto. Vedo invece che si inizia a parlare anche della pedofilia nelle scuole rabbiniche ortodosse. Mi auguro che non vi sia chi sta pensando di scatenare una propaganda contro la religione colpevole in quanto tale della pedofilia, magari coprendo quella che dilaga ovunque.