giovedì 27 agosto 2009

La Grande Crisi

La Grande Crisi



Forse, osserva Piero Ostellino sul Corriere della Sera, dopo le stagioni dell’“abuso della ragione” e dell’“irrazionalismo romantico” stiamo entrando nella “stagione della ragionevolezza”. A sostegno di tale ipotesi egli osserva che nessuno spettro totalitario si aggirerebbe per l’Europa e tanto meno per il mondo mentre nel 1989 si sarebbe esaurita la stagione dell’“irrazionalismo razionalista e giacobino”. Inoltre, “nel 2006 – con la crisi finanziaria mondiale – si è rivelata disastrosamente fallace anche la pretesa neoscientista di prevedere, e disciplinare, l’imperscrutabile spontaneismo sociale, economico e finanziario, attraverso l’utilizzo dell’informatica”.
Magari così fosse. Meglio sarebbe non scambiare la realtà con i nostri ragionevoli auspici. E non essere troppo eurocentrici. Difatti, se gli spettri totalitari classici non si aggirano più per l’Europa è ottimistico affermare che ancor meno si aggirino per il mondo. Al contrario, il mondo è percorso da una pleiade di totalitarismi declinati nelle forme più fantasiose. Ed è una magra consolazione che non si identifichino esattamente con i modelli totalitari europei di un tempo. Essi hanno comunque la forma di un incrocio tra quei modelli e altre culture: tipico è il caso dell’integralismo islamico che ha esplicitamente assimilato aspetti del modello comunista e di quello hitleriano. Ma quel che conta è che non è affatto scomparsa la caratteristica peculiare dei totalitarismi europei, così bene analizzata da François Furet: l’aspirazione palingenetica, cui anche Ostellino si riferisce, definendola come la pretesa di “raddrizzare il legno storto dell’Umanità” e di creare l’Uomo nuovo. Essa è tuttora l’asse portante dei totalitarismi di oggi. L’integralismo islamico non si propone forse di imporre un nuovo ordine mondiale basato sul Corano e sulla sharia, con cui sostituire le corrotte democrazie occidentali?
Quanto alla pretesa neoscientista, il riconoscimento della sua disastrosa fallacia è ancor più lontano. Certo, tutti dicono che siamo alla crisi delle certezze e che occorre ripensare a fondo certi capisaldi dottrinari come la teoria delle aspettative razionali e la credenza nella razionalità del mercato. Tommaso Padoa-Schioppa, sul Corriere della Sera, parla di “insensata credenza che potesse continuare così, dal mito della razionalità del mercato e da ingegneri finanziari che inventavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembrava scomparire dal sistema come la donna dall’armadio del prestigiatore”. Stefano Cingolani, sul Foglio, racconta le ammissioni dei luminari della London School of Economics circa i fallimenti della teoria economica contemporanea ma avverte giustamente che “l’autocritica, per quanto gradita e necessaria, non è sufficiente”.
Non soltanto non è sufficiente ma una seria autocritica non è neppure iniziata. Forse la crisi è stata troppo blanda per i soggetti responsabili del disastro, banche e operatori finanziari, che se la sono cavata a buon mercato (è proprio il caso di dirlo…) con l’aiuto delle finanze statali e che sembrano ricominciare a razzolare come prima.
Sono rimasto attonito quando la mia banca, dopo aver azzerato gli interessi sui conti correnti “perché c’è la crisi”, ha inviato per posta ai correntisti un libretto in carta patinata invitandoli a rivolgersi a un proprio consulente finanziario perché formuli “scientificamente” il loro profilo di propensione al rischio e, su questa base, proponga i “prodotti” corrispondenti a tale profilo. Insomma, si ricomincia a razzolare proprio come prima seguendo un modo di pensare che deriva, a sua volta, da una visione teorica dell’economia che impone da decenni la sua egemonia, non a caso detta “mainstream”. È questa visione che i luminari della London School e dei vari santuari della teoria economica dovrebbero avere il coraggio di sbaraccare: ma non lo fanno perché ciò equivarrebbe ad ammettere un fallimento teorico, a chiudere interi dipartimenti e cattedre, a rompere legami consolidati tra mondo accademico e finanza, fino a cambiare la politica del conferimento dei premi Nobel.
Il punto è che l’“insensata” credenza nella razionalità del mercato e la teoria delle aspettative razionali sono strettamente legate. Difatti, quest’ultima è basata sull’idea che le aspettative (le attese dei soggetti economici di fronte a eventi che possono influire sulle loro decisioni) sono “razionali” quando i soggetti hanno una conoscenza e una capacità di previsione perfetta del funzionamento del mercato. Questo comportamento razionale condurrebbe a un’evoluzione del mercato determinata e prevedibile e proprio agli eventi che gli agenti si aspettano. Comportatevi “razionalmente” e la realtà sarà “razionale”. E questa è esattamente l’ideologia che ispira il depliant in carta patinata della mia banca. La sua resistenza è legata a una tradizione che affonda nella microeconomia neoclassica e si è consolidata attraverso il mito che la realtà economica possa essere descritta in termini matematici di efficacia pari a quella dimostrata in fisica. Non si può sottovalutare il peso che ha avuto nella crisi la mitologia dell’efficacia della modellistica matematica. È dagli anni settanta che, malgrado si fossero manifestati sintomi premonitori gravissimi (come il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998), si è continuato a dare per buona l’idea che bastasse frullare nei computer il modello matematico di Black-Scholes-Merton – quello che pretende di descrivere con concetti di meccanica statistica l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi – per realizzare il sogno di un’economia razionale. Si è continuato a far girare questo frullatore fino a che i comportamenti “emotivi” e “irrazionali” (in realtà ragionevoli) hanno fatto saltare il sistema. Ma ancora pochi hanno il coraggio di dire che quel modello è basato su ipotesi grottescamente irrealistiche. E pochissimi hanno il coraggio di denunciare l’incredibile rozzezza di una rappresentazione della razionalità soggettiva in termini di massimizzazione dell’utilità. Difatti, ciò equivarrebbe all’invito a chiudere i battenti di una visione dell’economia fallimentare sul piano teorico e pratico. Intanto, sul piano pratico, si va avanti a testa bassa verso il prossimo burrone con la “high frequency trading”, la nuova frontiera di negoziazione dei titoli mediante algoritmi matematici e computer, al ritmo di millesimi di secondo. Si dice che questa è una bomba atomica che potrebbe far saltare per aria i mercati, ma nessuno ha il coraggio di disinnescarla.
Le chiacchiere sui cambiamenti nel modo di pensare e di agire indotti dalla crisi sono una perfetta manifestazione di gattopardismo. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? L’idea di razionalità come massimizzazione dell’utilità – ovvero di quella funzione che descriverebbe le preferenze del soggetto – è diffusa e radicata in un ambito molto più vasto di quello economico. Alla stessa idea si fa riferimento nel campo delle neuroscienze, quando addirittura si pretende di dimostrare – confrontando con la risonanza magnetica le reazioni cerebrali di un soggetto di fronte a differenti oggetti di consumo – che le funzioni di utilità sarebbero strutture innate del cervello. Naturalmente si tratta di analisi di stupefacente rozzezza, ma tant’è: il neoscientismo è un’ideologia tecnocratica e, come tale, resiste ai fatti e ai fallimenti.
Quella idea rozza di razionalità viene riproposta ovunque in modo cieco e acritico. È il mantra della corporazione degli “esperti” che, in ogni campo, si arrogano la pretesa di rendere razionali i nostri comportamenti e le nostre azioni; che si tratti della “produzione” di cultura, ricerca o insegnamento o della produzione di figli. In ogni circostanza la pretesa è che i comportamenti naturali, in quanto “irrazionali” e “selvaggi”, debbano essere sostituiti con comportamenti basati sui precetti di una razionalità definita in termini “scientifici oggettivi”.
Inutile dire che tutto ciò ha poco a che vedere con la scienza come conoscenza. Il vero problema è che ormai più che la scienza abbiamo di fronte la tecnoscienza e la sua pretesa di onnipotenza tanto smisurata quanto concettualmente fragile. Se accade che, nello stesso numero del Corriere della Sera in cui compare l’articolo di Ostellino, Alberto Quadrio Curzio indichi, tra le priorità per uscire dalla crisi, lo sviluppo della “tecnoscienza”, c’è poco da credere che la lezione sia stata compresa. Era la prima volta in assoluto che mi capitava di veder usare il termine “tecnoscienza” in termini positivi. Magari si potesse soltanto riderne.
(Il Foglio, agosto 2009)

mercoledì 19 agosto 2009

Copiature e valutazioni

Questo è il paese in cui un ex-Presidente del Consiglio si è vantato di aver indotto i suoi compagni di corso in un college americano a copiare; e in cui un ex-Presidente della Confindustria si è vantato di essere stato il più abile a copiare di tutta la scuola. Di che stupirsi quindi che, nell’esecuzione dei test dell’Invalsi, si sia manifestato un diffuso fenomeno di “copiatura”? Questa prassi, che è considerata negli Stati Uniti immorale e vergognosa al pari del furto con scasso, da noi è considerata per lo più normale. Chi non la mette in atto è un fesso e l’insegnante che la reprime è un fanatico repressivo. Ancora una volta scontiamo nei fatti che, nel campo dell’istruzione, parlare di qualità, rigore, merito e valutazione – la quale deve incentivare i primi, altrimenti non serve a niente – è pura chiacchiera se non si riesce ad imporre un’etica dei comportamenti.
Nella diffusione di comportamenti truffaldini ha avuto indubbiamente un effetto moltiplicativo la teoria demagogica ed egualitarista secondo cui la scuola deve portare ogni allievo al “successo educativo”, altrimenti l’insuccesso è suo e mai dell’allievo. Se un siffatto obbiettivo viene affermato come un valore assoluto, nella mente di soggetti di per sé poco amanti della legalità ogni azione atta a conseguire tale successo riceve una legittimazione “etica” (si fa per dire); e tra queste azioni – perché no? – anche il copiare. Se è giusto che tutti vadano avanti, a che pro bocciare o dare voti secondo una scala di merito? Tanto vale spingere avanti tutti allo stesso livello, anche con un “aiuto”. Nei commenti di questi giorni colpisce l’affermazione strampalata secondo cui i risultati dell’indagine Invalsi mostrerebbero l’inutilità delle bocciature come strumento di recupero. Il nesso è inesistente e manifesta soltanto l’ostinato tentativo di difendere una visione ideologicamente contraria al premio del merito e alla sanzione del demerito.
La polemica di questi giorni si è appuntata sul fatto che gli imbrogli si concentrerebbero soprattutto in certe regioni del sud. Se certe prassi appaiono più diffuse nel meridione sarebbe opportuno non imputarle soltanto a una maggiore diffusione di comportamenti tendenti all’illegalità, che sono alimentati dalla propensione alla raccomandazione e al favoritismo, contro cui per primi combattono tanti cittadini meridionali. Occorrerebbe anche analizzare fino a che punto la demagogia del successo educativo abbia trovato terreno di diffusione in determinati contesti ambientali piuttosto che in altri, inducendo anche i professori alla prassi di “aiutare” gli studenti a copiare tutti insieme lo stesso risultato giusto. E, per converso, bisognerebbe anche approfondire le ragioni culturali che rendono difficile a molti accettare certe procedure di valutazione basate su test.
Ad ogni modo, i commenti di questi giorni dimostrano che di fronte alle analisi dell’Invalsi si può reagire in due modi: prospettando un intervento “umano” che renda i test affidabili sia nella loro formulazione sia nel modo in cui sono gestiti, per esempio introducendo forti elementi di mobilità territoriale nella nomina dei presidenti delle commissioni; o, invece, puntando soltanto sul raffinamento dei metodi di valutazione e sul potenziamento delle analisi statistiche. Ritengo che la prima via sia quella giusta. Certe locuzioni come «valutazione oggettiva degli apprendimenti» sono ridicole, come se nella storia della umanità non si fosse mai stati capaci di valutare in modo serio, oggettivo e di successo. Sarebbe più serio dire che le metodologie a base di test e statistiche sono rese necessarie dal carattere di massa della scuola; e tenere presenti i limiti di valutazioni compiute con test standardizzati – che unificano realtà profondamente diverse secondo criteri inevitabilmente rudimentali – e i limiti di analisi statistiche che vanno usate cum grano salis e non sono la bocca della verità. Colpisce la leggerezza con cui si indicano come modello perfetto le indagini Ocse-Pisa senza rendersi conto degli elementi altamente soggettivi e discutibili su cui esse sono basate: per esempio, quando assumono un’idea della matematica come “matematica del cittadino”. Da questo punto di vista, occorre riconoscere all’Invalsi il merito di rifarsi a modelli più ragionevoli, come le indagini Timss, e di seguire un approccio che mira a valutare la formazione disciplinare e che, per quanto è possibile, introduce test di valutazione non soltanto a risposta chiusa.
Ritengo invece profondamente sbagliata la linea di chi diffida dell’intervento umano e crede che la via sia il potenziamento tecnico della valutazione. Costoro mirano a costituire carrozzoni di “esperti” la cui dubbia competenza si pone al riparo dalla valutazione in quanto sarebbe intrinsecamente “oggettiva”.
Lasciamo lavorare l’Invalsi in questa direzione ragionevole ed equilibrata, utilizzandone le indagini per individuare strumenti atti a indurre comportamenti eticamente corretti e a migliorare la qualità disciplinare dell’istruzione. Perché in definitiva l’obbiettivo deve essere questo. Viceversa, chi pensa la valutazione come un processo autoreferenziale e pretende di invertire i ruoli, come se i test offrissero i contenuti dell’istruzione – anche questa assurdità è stata profferita in questi giorni – non fa altro che promuovere la dittatura dell’abbrutimento culturale.
(Libero, 12 agosto 2009)

sabato 8 agosto 2009

La dittatura degli "editor"

Rimbalza nelle polemiche estive la questione dello strapotere degli “editor”, cioè di quei personaggi che vengono preposti dagli editori a tagliare, correggere, ricucire, o come si dice sinistramente a “riscrivere” i libri, in funzione della loro vendibilità. È ormai una prassi dilagante che avrebbe ucciso sul nascere autori come Proust e persino Tolstoi e Dostoevskij, che i canoni vigenti avrebbero giudicato verbosi, prolissi e pieni di inaccettabili digressioni. Qui vorrei aggiungere la testimonianza di come lo strapotere degli “editor” si stia diffondendo nella saggistica e anche nelle riviste scientifiche. All’origine si trattava dell’intervento di redattori interni alle case editrici o alle riviste che avevano il compito limitato e prezioso di rileggere il testo per scoprire sviste, errori di nomi o date, per rivedere le bibliografie e, naturalmente, per scoprire i refusi. Questa funzione ha tracimato in un doppio senso: perché si è estesa a interventi sullo stile e persino sui contenuti del testo e perché viene conferita in “esternalizzazione” a piccole ditte o singoli, dato che i tradizionali, competenti e preziosi redattori delle case editrici sono praticamente spariti. Abbiamo ora invece “esperti” che non hanno alcun titolo speciale se non quello che deriva automaticamente dall’appartenere a una corporazione o semplicemente dalla fiducia concessa loro dal datore di lavoro; e che spesso sono degli incompetenti, insensibili al significato del testo e allo stile dell’autore, cui pretendono di sovrapporre uno stile standardizzato appreso meccanicamente in qualche scuola di “editing” e che li gonfia di un’arroganza mai vista nei redattori. È una situazione che costringe spesso l’autore a una lotta defatigante per difendere il testo da petulanti e distruttive intrusioni.
Mi limito ad alcuni esempi. Si va da quell’editor che mi chiese di sopprimere in un libro qualsiasi riferimento a Marx e al marxismo (trovandoli troppo critici) a quello che riscrisse un brano citato di Benedetto Croce reputandone deplorevole l’italiano! Il correttore di stile di una rivista storica americana trovò troppo retoriche e trombonesche delle frasi di articoli del periodo fascista, che assieme a un traduttore specializzato avevamo reso nel modo più accurato: ci volle una rissa epistolare per fargli capire che quello era lo stile dei fascisti; niente, lui voleva riscriverle in stile di flemma anglosassone… Un altro editor smontò l’intera bibliografia di un libro seguendo criteri sconcertanti tra cui quello, nel caso di più autori, di citare soltanto il primo mettendo gli altri in fondo tra parentesi. Poi voleva spostare interi paragrafi del testo dove gli sembrava più opportuno. C’era quello che chiedeva se “Bollettino” è una rivista oppure no e se esistono davvero dei “verbali d’esame”, il tutto con supremo sprezzo del ridicolo e anzi con un tono di rimprovero all’autore per non aver spiegato bene le cose. Ometto di parlare delle più insensate richieste di correzioni stilistiche, come quella di sopprimere l’espressione “ciurlare nel manico” in quanto troppo colloquiale… Inutile dire che, per questi esperti, correggere i refusi è un’attività troppo bassa e vile, per cui, se non ci pensi tu, te ne troverai il testo pieno, inclusi quelli aggiunti da loro.
Il fenomeno degli “editor” è un cascame della tendenza a imporre la dittatura della metodologia e del “saper fare” sulla conoscenza e a porne gli “esperti” fuori di ogni controllo. Si tratta di uno dei maggiori fattori di distruzione della cultura in ogni campo, a cominciare da quello dell’istruzione, dove dilaga la retorica della supremazia della metodologia sulla conoscenza.
(Tempi, 6 agosto 2009)