mercoledì 11 luglio 2007

Falsi amici

(Informazione Corretta)

Mentre Abu Mazen dichiara che con Hamas non tratterà mai, non si siederà mai allo stesso tavolo, Piero Fassino dichiara (secondo quanto riferisce la stampa) che «bisogna provare a sedersi a un tavolo con Hamas, anche senza la pregiudiziale del riconoscimento dello Stato di Israele» perché «se ci siede a un tavolo, non è solo Israele che riconosce Hamas, ma viceversa». Da un lato si tratta di un’argomentazione risibile con la quale si potrebbe tranquillamente legittimare Monaco 1938: anche in quel caso, sedendosi a un tavolo, ci si è riconosciuti reciprocamente, e poi si è visto cosa è successo. Anzi, con questo criterio, il Congresso Mondiale Ebraico avrebbe dovuto partecipare a Monaco 1938, almeno in qualità di osservatore. Non è escluso che Hitler avrebbe accettato e sarebbe stato una bel riconoscimento, in attesa di passare alle camere a gas i “riconosciuti”.
Infatti, quel che Fassino forse non ricorda – vogliamo credere che non lo ricordi, altrimenti la cosa sarebbe molto grave – Hamas ha un programma che non ha nulla da invidiare a quello di Hitler. Ha messo addirittura nel suo statuto – o costituzione, secondo come la si vuol chiamare – che bisogna andare ad ammazzare ogni ebreo che si nasconda dietro qualsiasi pietra, e che questo è un assoluto dovere di un buon palestinese che pretenda di essere considerato un buon musulmano. Che Hamas sia disponibile a sedersi e a trattare lo sanno anche i gatti del cortile della casa di Fassino. Il problema è che bisognerebbe convincere Hamas quanto meno a cancellare quei passaggi della costituzione, che predicano il dovere assoluto di distruggere Israele, di trucidare ogni ebreo e via elencando orrori. Che ne dice Fassino? È una richiesta troppo spinta? È intransigenza tipicamente israeliana?
Che l’on. Fassino sia stressato appare chiaro, e che sotto stress dica cose che non vorrebbe dire, è cosa che può essere compresa. Ma c’è un limite a tutto, anche all’indulgenza. Soprattutto se lo stress deriva dal dover difendere l’impresentabile politica estera del suo impresentabile ministro degli esteri e, al contempo, alimentare la sua fama di amico di Israele, perché i due obbiettivi sono talmente incompatibili da spezzare la corda tirata oltre ogni limite.
Mentre persino Solana bacchetta i 10 che hanno scritto a Blair chiedendo di prendere atto del fallimento della Road Map (non del fallimento della questione palestinese!) e di aprire una linea di credito a Hamas, la nostra politica estera si distingue come la riedizione del chamberlainismo più smaccato. D’Alema si dichiara preoccupato che vi siano ulteriori sanzioni all’Iran «perché vi è il rischio che tra pochi anni ci troviamo nello scenario peggiore: o accettare la bomba atomica iraniana, o avere una guerra contro l’Iran». Un esempio sopraffino di quell’uso della logica, per il quale il nostro ministro degli esteri va famoso e viene definito “intelligentissimo” dai suoi adulatori. Difatti, sopprimendo le sanzioni, l’Iran si farà l’atomica e la guerra non si farà perché nessuno vorrà fare una guerra atomica. Salvo magari l’Iran contro Israele. Ma di questo al nostro intelligentissimo ministro non importa un fico secco. Del resto quale sia il concetto di “equivicinanza” lui l’ha finalmente svelato nell’ultima intervista in cui ha parlato di Israele: il suo massimo desiderio è che in un modo o nell’altro si creino le condizioni perché si riapra il dialogo tra Hamas e Abu Mazen. Insomma, voi credevate che D’Alema fosse “equivicino” a Israele e ai suoi nemici? No, egli è “equivicino” a Abu Mazen e Hamas. Il guaio è che Abu Mazen, dando mostra di un’intransigenza di stile israeliano, non vuole riaprire il dialogo. Bisognerà forse imporgli delle sanzioni?
Questa è la politica impresentabile che l’on. Fassino si è impantanato a difendere. Se lo fa credendoci o per disperazione, a causa di problematiche politiche casalinghe, è cosa che in fin dei conti non interessa più.
Un’ultima domanda rivolta a “Sinistra per Israele”: se ci siete battete un colpo. Questo è il momento giusto.

Giorgio Israel

lunedì 9 luglio 2007

Senza teologia e filosofia la scienza non sarebbe mai nata. Ecco perché

(Il Foglio, 6 luglio 2007)


Non è che un noto magistrato (poniamo Antonio Di Pietro) possieda per ciò stesso i titoli a scrivere un trattato di filosofia del diritto; né un celebre radiologo una storia della medicina; né un farmacista una storia della farmacologia; o un ingegnere navale una storia delle esplorazioni per mare. Allo stesso modo, aver avuto il Nobel per la scoperta delle sorgenti cosmiche dei raggi X non implica che Riccardo Giacconi sia titolato a discettare di storia della scienza. L’effetto di simili estrapolazioni di competenze può essere esilarante, almeno a giudicare dal resoconto di Angiolo Bandinelli.
La tesi di Giacconi sarebbe che filosofia e religione hanno bloccato la scienza per mille anni, da quando fu disattesa l’idea pitagorica secondo cui la natura può essere descritta con i numeri. Senonché Pitagora e i pitagorici non ambirono a descrivere mai nulla con i numeri, bensì a sostenere che i numeri sono l’essenza di tutte le cose in un senso mistico ed esoterico che con l’empirismo scientifico di Giacconi ha poco a che spartire. Quindi il povero Aristotele non ha la colpa di aver fatto «divorziare» l’astronomia dal mondo naturale; tantomeno di aver bloccato la scienza in quanto “metafisico”, casomai in quanto empirista. Aristotele non costruiva rappresentazioni astratte e matematiche, bensì guardava ai moti dei corpi quali sono. Difatti, i moti senza attrito pensati da Galileo (e impensabili per Aristotele) sono astrazioni mentali inesistenti in natura. Ed è proprio “difalcando gli impedimenti della materia”, scoprendo il valore delle rappresentazioni astratte matematiche, tornando alla metafisica platonistica di un mondo la cui essenza è matematica, che è nata la scienza moderna. Altro che divorzio dalla filosofia! Come ha scritto Alexandre Koyré, «una scienza di tipo aristotelico, che parte dal senso comune e si basa sulla percezione sensibile, non ha bisogno di appoggiarsi a una metafisica», mentre la scienza galileiana e newtoniana «che postula il valore reale del matematismo, non può fare a meno di una metafisica, e anzi non può far altro che cominciare da essa».
Il principio di base della meccanica classica, il principio d’inerzia –un corpo non soggetto ad azioni esterne se è in quiete vi resta, altrimenti si muove di moto rettilineo uniforme – è un principio che meno empirico e più metafisico non si può. Non a caso, Aristotele lo riteneva talmente contrario al buon senso da usarlo per dimostrare che il vuoto non esiste: se esistesse il vuoto varrebbe il principio d’inerzia, il che è contrario ai fatti… Fu invece la teologia a attirare l’attenzione su di esso. Nel 1277 il vescovo di Parigi Etienne Tempier stilò un elenco di 219 tesi condannate come false: la tesi 49 asseriva che Dio non è in grado di impartire ai cieli un moto rettilineo uniforme. Senza la teologia non si capisce un acca della nascita della scienza moderna. Altro che blocco millenario… Come ha scritto Amos Funkenstein, tutti gli scienziati del Cinquecento e del Seicento erano “teologi laici” – laici perché non erano sacerdoti, non perché credessero in Dio come principio naturale. Del resto, la miseria dei tempi è tale che c’è pure chi, fraintendendo il detto “Deus sive natura” e confondendo panteismo con ateismo, vuol far credere che Spinoza fosse ateo…
Quando sostenni l’esame di maturità la commissaria di scienze voleva bocciarmi perché non avevo saputo rispondere alla domanda: «Cosa fece Keplero dopo aver scoperto le sue leggi?». La risposta doveva essere: «S’inginocchiò e ringraziò Dio». Naturalmente era pazza, ma non aveva torto: Keplero era un mistico e traeva le sue visioni astronomiche da una miscela di religiosità platonistica, di pitagorismo mistico e di matematica. Nel “Misterium Cosmographicum” sostenne che la struttura dell’universo era stata determinata da Dio secondo l’architettura dei poliedri regolari euclidei l’uno incluso nell’altro. Bell’esempio di razionalismo empiristico… Come Leibniz che concepiva i differenziali (matematici) come espressione delle differenze qualitative infinitesime tra monadi adiacenti nella grande catena dell’essere.
Che la scienza sia nata su basi metafisiche e teologiche, come diceva Koyré, «l’abbiamo dimenticato. La nostra scienza va avanti senza occuparsi molto dei suoi fondamenti. Il suo successo le basta. Fino al giorno in cui una “crisi” le rivela che le manca qualche cosa: cioè capire ciò che fa». Parole attuali! Giacconi, di fronte alla difficoltà di capire l’universo, dice che sarebbe sterile riportare in ballo l’Assoluto divino e Bandinelli teme altri mille anni di stasi e implora «Che Dio ci aiuti». Non si lasci spaventare dalla storiografia alla Giacconi. Piuttosto mi preoccuperei di quel demi-monde in cui coesistono antipapi che sentenziano che «la scienza è la religione della verità» e piccoli Voltaire che proclamano che «la scienza è libertà perché la sua essenza è il relativismo». Divisi su tutto, colpiscono uniti: la religione, beninteso.

Giorgio Israel