domenica 24 dicembre 2006

Un intervento sulla polemica concernente il presepio

Avvenire, 21 dicembre 2006


In questi giorni per gli ebrei è Hanukkah, la festa delle luci. Intorno le luci di Natale. Ma a scuola i miei figli non incontrano un’esperienza religiosa diversa. Trovano soltanto Babbo Natale con una slitta carica di giocattoli e di luoghi comuni multiculturali. Non devo spiegare loro chi era Gesù e cos’è il cristianesimo, bensì difendere la loro esperienza religiosa dall’assedio del consumismo, o arrabbattarmi a spiegare l’insipida storiella di Natale raccontata a scuola: la storia di un bambino italiano, svedese o musulmano (ma musulmano è una nazionalità?) che diventa un bambino qualsiasi per non far torto a nessuno.
Mi si potrebbe chiedere cosa mai pretenda. Rimpiango forse i tempi della mia fanciullezza, in cui circolava abbondantemente l’antigiudaismo? Tempi in cui potevo incontrare un sacerdote che spiegava alla classe che gli ebrei erano crudeli deicidi e, carezzandomi la testa, aggiungeva che io, poverino, non c’entravo, dopodichè nessuno voleva più sedere nel banco con me. Non li rimpiango, apprezzo il grande cammino percorso e non sono di quei masochisti che preferiscono non vederlo mentre amano farsi torturare dall’antisemitismo islamico. Quel che voglio lo vedo tangibilmente nel rapporto con gli amici di Comunione e Liberazione: un chiaro e dignitoso senso della propria identità, rispettoso di quella altrui, senza sincretismi e senza tentativi di conversioni, obliqui o invadenti che siano. Un atteggiamento che è la chiave dell’unico dialogo possibile, quello così ben spiegato da Benedetto XVI nel discorso alla sinagoga di Colonia.
È un atteggiamento che ho appreso da mio padre in quei tempi in cui era più difficile assumerlo: tanto egli era rigoroso nel contrastare ogni sussulto antiebraico, quanto era tenace nel difendere più che la possibilità, la necessità del dialogo ebraico-cristiano. Da lui ho appreso – e vorrei trasmettere ai miei figli – a ravvisare nelle preghiere cristiane e nella messa le frasi e le benedizioni delle ricorrenze ebraiche, a scoprire che la benedizione ebraica impartita dai genitori ai figli (“Il Signore ti protegga e ti custodisca”) è la stessa di San Francesco a Frate Leone. La propria identità religiosa non rischia nulla nel cercare quel che unisce, nel riconoscere che “non si può essere cristiani se non si è ebrei” (come ha detto il cardinale Caffarra) e che la prima esperienza religiosa con cui un ebreo deve misurarsi e con cui deve dialogare è quella cristiana.
Il dialogo non è soltanto reso impossibile dagli atteggiamenti di sopraffazione integralista, ma è vanificato dal buonismo confusionario che, alla fine, svela più intolleranza di quanto sembri. Ho incontrato questo secondo atteggiamento alla fine della mia vita scolastica, quando nel mondo religioso avanzava il progressismo. Il docente di religione nel mio liceo era un sacerdote molto “avanzato”, poi divenuto redattore di un giornale comunista. Mi propose di restare nell’ora di religione per “dialogare”. Poi quando vide che difendevo senza complessi le mie vedute mi invitò seccamente a non disturbare le lezioni… Aveva creato attorno a sé un circolo di adepti assai motivati, molto (troppo) pervasi di una sicurezza di sé che respingeva la mia identità di ebreo non meno drasticamente dei più incalliti integralisti. Colpiva il modo in cui trasformavano l’esperienza religiosa in un’esperienza meramente sociale.
Una decina di anni fa assistetti in Spagna al matrimonio cattolico di una coppia di amici. Un prete alquanto informale eseguì il rito in modo casereccio, fino a che lo sposo non salì dietro l’altare e tenne una specie di conferenza colloquiale per spiegare il significato del rito secondo le vedute più “progredite”. Finì con una chitarrata. Espressi a qualcuno il mio disappunto sollevando un’ondata di ilarità: un ebreo che assumeva le vesti del cattolico tradizionalista… Tentavo di spiegare che un rito assume valore se è circondato da un’atmosfera di intensa partecipazione e di silenzioso e assorto rispetto e che perdere questa dimensione è quanto distruggere l’esperienza religiosa alle radici. Non apprezzo la confusione chiassosa delle sinagoghe romane: malgrado ciò, nel momento della benedizione finale del giorno di Kippur, quando i figli si raccolgono sotto il manto di preghiera dei genitori, si crea un silenzio irreale, su cui si staglia soltanto la voce del rabbino celebrante, davvero “la voce del silenzio”. I riti religiosi hanno bisogno di questi momenti di intensità. Assistendo a una messa ho sempre evitato l’atteggiamento del curioso, cercando di capire l’esperienza religiosa e i sentimenti dei fedeli. Non vi è nulla da rimproverare alle forme più o meno mondane di socializzazione, ma è incongruo e insensato surrogare con esse l’esperienza religiosa. Inoltre, chi pretende di creare questi surrogati tende a conferire alle sue pratiche la sacralità della funzione originale e ad assumere atteggiamenti arroganti e intolleranti tipici dell’integralismo. Visto che si considera investito del potere di tradurre i riti della sua fede nelle forme socializzate da lui decise, figuriamoci quale rispetto può avere per le fedi altrui. Un giorno pranzai con uno di questi sacerdoti iperprogressisti che mi spiegò con sussiego e sdegno che l’ebraismo era una religione rozza e brutale e che il cristianesimo, pur avendo fatto qualche progresso, aveva ancora molto da apprendere da una religione tanto più evoluta come l’islam… Non poteva darsi una manifestazione più clamorosa di odio di sé.
Non rimpiango un certo passato ma non mi piace il “presepe” di oggi. L’evoluzione dell’insegnamento di religione nelle scuole illustra ulteriormente l’andazzo. Le novità introdotte dal secondo Concordato non hanno costituito affatto un progresso. Certo, prima occorreva chiedere l’esenzione dall’ora obbligatoria di religione, che però veniva concessa sempre: se eri piccolo restavi in classe a fare quel che volevi e l’unico rischio era di incontrare qualche persona malevola; quando eri più grande uscivi prima o entravi dopo, perché la collocazione dell’ora lo consentiva sempre. La perversa introduzione delle ore sostitutive obbligatorie crea un sentimento di esclusione molto più grave. Il mio figlio più grande fu costretto a sorbirsi un’annata di lettura del Corano, i più piccoli si destreggiano tra attività improbabili e libercoli intrisi di un insopportabile buonismo multiculturale da cui ricavano un’unica sbagliatissima conclusione: che sono “diversi”. Su tutto domina la tiritera secondo cui l’ora di religione è sì confessionale, ma a tal punto “aperta” che non può che “far bene a tutti”. Il guaio, per l’appunto, è che è troppo aperta, fino a generare il proselitismo del nulla. Così, può capitare l’insegnante – non meno devastante del sacerdote della mia infanzia – che invita i piccoli a fare pressioni psicologiche sul loro compagno perché partecipi anche lui e si tolga dall’isolamento. Sono manifestazioni di arrogante debolezza che alimentano soltanto il discredito e la disaffezione per l’insegnamento della religione.
È questo un tema su cui si possono fare proposte precise per un’ora di religione obbligatoria non confessionale ma per nulla confusamente “storico-culturale”, la quale trasmetta i valori spirituali che sono a fondamento delle nostre società. Ma è un discorso troppo serio e complesso per rischiare di trattarlo male in poche righe.
Vorrei concludere dicendo che occorre arrestare la corsa verso il disprezzo della spiritualità, in particolare di quella religiosa. Un Natale così non fa bene a nessuno. Si ricominci pure a fare i presepi nelle scuole e a cantare “Stille Nacht”. Ho accompagnato tante volte delle compagne di scuola a comprare le bellissime figurine dei presepi di stile napoletano e sono ancora qui, senza aver perso nulla della mia identità ebraica. È molto più importante sbarazzarsi di questo Babbo Natale politicamente corretto, con la pelle multicolore a vestito di Arlecchino e la slitta vuota di spiritualità e carica di cellulari.

Giorgio Israel

mercoledì 20 dicembre 2006

Una tragica e tremendamente realistica prospettiva

L'INCUBO DEL GIORNO DEL SECONDO OLOCAUSTO


• da Corriere della Sera del 20 dicembre 2006, pag. 1

di Benny Morris

Il secondo Olocausto non sarà come il pri mo. Certo, anche i nazisti ordirono uno stermi nio di massa. Ma, in qualche modo, avevano un contatto diretto con le vittime. Che disumanizzavano, dopo mesi, anni di atroce degrada zione fisica e morale, prima dell'uccisione ve ra e propria. Ma con cui avevano pur sempre stabilito un contatto fisico: vedevano, sentivano, talvolta toccavano le loro vittime. I tede schi — e i loro alleati — rastrellavano uomini, donne e bambini, per poi trascinarli e randel larli lungo le strade, freddarli nel bosco più vi cino o scaraventarli e stiparli nei vagoni di un treno, da cui iniziava il viaggio verso i cam pi di sterminio, dove «II lavoro rende liberi».

Separavano gli individui di costituzio ne robusta da quelli completamente inu tili, che adescavano nelle «docce» attraverso cui veniva pompato il gas; estrae­vano o presiedevano alla rimozione dei corpi e preparavano, infine, le «docce» per il plotone successivo.

CRISI - II secondo Olocausto sarà ben di verso. Un bel giorno, tempo cinque o die ci anni, magari nel pieno di una crisi re gionale, o quando meno ce lo aspettere mo, un giorno o un anno o cinque anni dopo che l'Iran si sarà dotato della Bom ba, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto dell'ayatollah Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet al presidente Ahmadinejad, giunto ora mai al secondo o al terzo mandato. Tut ti i comandi saranno eseguiti, i missili Shihab-3 e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme e, probabilmente, anche contro alcuni campi militari, comprese le sei basi ae ree e missilistiche nucleari (o presunte tali) di Israele. Qualche missile sarà do tato di testata nucleare, in qualche caso addirittura multipla. Altri saranno di ti po standard, muniti solamente di agenti chimici o batteriologici, o stipati di vec chi giornali, per scalzare o spiazzare le batterie anti-missilistiche e le unità del l'esercito israeliano.

Per un Paese delle dimensioni e la con formazione di Israele (una striscia di ter ra oblunga di circa 21 mila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci saran­no probabilmente sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nel le maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, periranno sul colpo. Milioni saranno gravemente irradiati. Israele conta sette milioni di abitanti circa. Nes sun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale.

DANNI COLLATERALI - Ci saranno inevitabil mente anche morti di nazionalità araba. Circa 1,3 milioni di abitanti di Israele so no arabi e altri 3,5 milioni vivono nelle aree ancora in parte occupate della Stri scia di Gaza e in Cisgiordania. Gerusa lemme, Tel Aviv, Jaffa e Haifa contano nutrite minoranze arabe. E attorno a Ge rusalemme (vedi El Bireh, vicino a Ramallah, Bir Zeit e Betlemme) e Haifa sor gono vaste aree a densa popolazione ara ba. Anche qui saranno in moltissimi a morire, sul colpo o poco a poco.

È improbabile che un si mile massacro possa tur bare Ahmadinejad e i mul lah. Gli iraniani non ama no particolarmente gli ara bi, nutrono particolare di­sprezzo per i palestinesi sunniti che, in fin dei con ti, pur essendo inizialmen te dieci volte più numero si degli ebrei, nel corso di un conflitto che si è pro tratto per anni non sono riusciti a impedi re loro di fondare lo Stato ebraico, né di prendere possesso di tutta la Palestina. Di più, i leader iraniani considerano la distru zione di Israele come un supremo coman do divino, l'araldo della Seconda Venuta, e la morte collaterale degli islamici come il sacrificio di shuhada (martiri) sull'altare di una causa nobile. In ogni caso, il popolo palestinese, sparso un po' in tutto il mon do, sopravviverà, assieme alla grande na zione araba di cui è parte integrante. E va da sé che, per liberarsi dello Stato ebraico, gli arabi devono essere pronti a qualche sa crificio. E il gioco, considerandolo nel bilancio generale, vale la candela.

Ma un'altra questione potrebbe essere sollevata nel corso di queste consulte: e Gerusalemme? La città, infatti, ospita due dei luoghi più sacri dell'Islam (dopo la Mecca e Medina) : le moschee di Al Aqsa e di Omar. Con ogni probabilità, però, la suprema guida spirituale Ali Khamenei e Ahmadinejad darebbero a questa domanda la stessa risposta che sfoggerebbero per il più generale problema del la distruzione e dell'inquinamento radio attivo dell'intera Palestina: la città e la terra, per grazia di Dio, in venti, cinquan ta anni al massimo torneranno come pri ma. E saranno restituite all'Islam (e agli arabi). Senza la benché minima traccia di contaminazioni radioattive.

RISCHIO CALCOLATO - A giudicare dai conti nui riferimenti, da parte di Ahmadi nejad, alla Palestina e all'urgenza di di struggere Israele, e dalla negazione, di cui si è fatto portavoce, del primo Olo causto, si direbbe che l'uomo sia osses sionato. Tratto che condivide con i mul lah: entrambi vengono dalla scuola di Khomeini, prolifico antisemita noto per le folgori scagliate contro il «piccolo Sa tana». E a giudicare dal concorso, da lui promosso, per le vignette sulla Shoah, o dalla Conferenza sull'Olocausto (appe na conclusasi), emerge un presidente ira niano arso da un vortice di odio profon do (oltreché, naturalmente, insolente). Ahmadinejad, infatti, è pronto a mettere a repentaglio il futuro dell'Iran, se non addi rittura di tutto il Medio Oriente musulma no, in cambio della distruzione di Israele. Non v'è alcun dubbio che egli creda che Allah, in un modo o nell'altro, proteggerà l'Iran da una risposta nu cleare israeliana o da un'eventuale controffensi va Usa. E, Allah a parte, è facile che egli creda che i suoi missili polverizzeran no lo Stato ebraico, annienteranno i suoi leader, di­struggeranno le basi nucle ari terrestri e demoralizze ranno o spiazzeranno i co mandanti dei sottomarini nucleari in modo così dra stico ed efficace da neutra­lizzare qualsivoglia reazio ne. E, con il suo profondo disprezzo per il pa vido Occidente, è improbabile che il leader iraniano prenda in seria considerazione la minaccia di una rappresaglia nucleare Usa. Ma può anche darsi che egli sia consa pevole del rischio di un contrattacco e si professi tout court — e, secondo il no stro modo di pensare, in modo assoluta mente irrazionale — disposto a pagarne le conseguenze. Come il suo mentore Khomeini ebbe a dire, nel 1980, durante un discorso ufficiale a Qom. «Noi non ve neriamo l'Iran, ma Allah...Per questo di co: che questa terra bruci. Che vada in fumo, purché l'Islam ne esca trionfan te...». Per tali cultori della morte, persino il sacrificio della propria patria vale bene la cancellazione di Israele.

Come il primo, anche il secondo Olocau sto sarà preceduto da lustri di indottrina mento dei cuori e delle menti da parte di leader arabi e iraniani, intellettuali occi dentali e sfoghi mediatici. Il messaggio è cambiato a seconda del pubblico ma, di fat to, l'obiettivo di fondo è stato sempre lo stesso: la demonizzazione di Israele. Ai mu sulmani di tutto il mondo è stato insegna to che «i sionisti e gli ebrei incarnano il ma le» e che «Israele dovrebbe essere distrut to». E agli occidentali, in modo più subdo lo, è stato inculcato che «Israele è uno Sta to tiranno e razzista» che «nell'età del multiculturalismo, è inutile e anacronistico».

COMUNITÀ INTERNAZIONALE - La campagna per il secondo Olocausto (che, tra l'al tro, alla fine provocherà all'incirca tanti morti quanti ne fece il primo) si è svolta in una comunità internazionale lacerata e guidata da ambizioni egoistiche e di scordanti, con Russia e China ossessio nate dalle prospettive di mercato nei Pa esi musulmani, la Francia dal petrolio arabo e gli Usa portati, dopo la débàcle irachena, a un profondo isolazionismo. L'Iran è stato lasciato libero di prosegui re sulla china del nucleare, e la comuni tà internazionale non è intervenuta nel lo scontro tra Israele e il regime degli Ayatollah.

Ma uno Stato israeliano sostanzialmen te isolato — come un coniglio improvvisa mente abbagliato dai fari di una macchina —, non può essere all'altezza della situazio ne. La scorsa estate, guidato da un mediocre politicante come Primo ministro e da un sindacalista da strapazzo come mini stro della Difesa, schierando un esercito addestrato per gestire le inesperte e sguar nite bande palestinesi nei Territori occupa ti (e troppo intento a fare fronte a eventua li disgrazie o a provocarle), Israele è uscito perdente da un mini-conflitto di appena trentaquattro giorni contro una piccola guerriglia di fondamentalisti libanesi spal leggiata dall'Iran. Quell'episodio ha total mente demoralizzato la leadership politi ca e militare israeliana.

Da allora, i ministri e i generali israeliani, così come i loro omologhi occidentali, assi stendo al graduale approvvigionamento di armi letali a Hezbollah da parte dei fian cheggiatori di quest'ultimo, sono divenuti sempre più sfiduciati e pessimisti. Parados salmente, è addirittura possibile che i lea der israeliani abbiano gradito gli appelli al la moderazione da parte dell'Occidente. E, con ogni probabilità, hanno voluto dispera tamente credere alle promesse occidentali che qualcuno — l'Onu, il G7 —, in un modo o nell'altro, avrebbe cavato la castagna ra dioattiva dal fuoco. C'è stato addirittura chi ha abboccato alla bislacca promessa di un cambio di regime a Teheran il quale, pi lotato dal cosiddetto ceto medio laico, avrebbe progressivamente messo il basto ne tra le ruote al fanatismo dei mullah.

NUCLEARE - Ma, fatto ancor più rilevante, il programma iraniano ha costituito una sfida infinitamente complessa per un Pa ese con risorse militari limitate e di tipo convenzionale qual è Israele. Prenden do l’imbeccata dall'operazione con cui l'Aeronautica militare israeliana, nel 1981, riuscì a distruggere il reattore nu cleare iracheno di Osiraq, gli iraniani hanno raddoppiato e dislocato i propri impianti, nascondendoli anche molti metri sottoterra (e a ciò va aggiunto il fatto che la distanza tra Israele e gli obiettivi iraniani è dop pia rispetto a quella con Bagdad). Per smantella re con le armi convenzio nali gli impianti iraniani conosciuti, occorrebbe una capacità aeronau tica pari a quella Usa im pegnata giorno e notte, e per oltre un mese. Nel la migliore delle ipotesi, l'aeronautica, la marina e il commando israelia no potrebbero sperare di fermare solo in parte il progetto iraniano. Il quale, tutto som mato, non subirebbe sostanziali modifi che. Con gli iraniani ancora più determi nati (ammesso che ciò sia possibile) a sviluppare quanto prima la Bomba. (Al tra conseguenza immediata sarebbe senz'altro una nuova campagna terrori stica di stampo islamista e su scala glo bale contro Israele — e forse anche con tro i suoi alleati occidentali — assieme, naturalmente, a un'involuzione presso ché generale. Manipolati da Ahmadinejad, tutti rivendicherebbero che il pro­gramma iraniano aveva scopi pacifici). Tutt'al più, un attacco convenzionale da parte di Israele potrebbe procrastina re il progetto iraniano di uno o due anni.

OPZIONI - In quattro e quattr'otto, dun que, la sprovveduta leadership di Geru salemme si troverà davanti a uno scenario apocalittico, sia che lanci un'offensi va convenzionale dagli effetti marginali, sia che opti per un attacco nucleare pre ventivo contro gli impianti iraniani, alcu ni dei quali situati vicino o dentro le prin cipali città. Ne avrebbe il fegato? La sua determinazione a salvare Israele baste rebbe a giustificare l'attacco preventi vo, con la conseguente morte di milioni di iraniani e, di fatto, la distruzione del l'Iran?

Il dilemma è stato rigorosamente chia rito già molto tempo fa da un generale molto saggio: l'arsenale nucleare israe liano a nulla può servire. Può soltanto es sere schierato «troppo presto» o «trop po tardi». Il momento «giusto» non arri verà mai. Se schierato «troppo presto», ossia prima che l'Iran si fosse procurato gli ordigni nucleari, Israele sarebbe sta to degradato a paria nello scacchiere in ternazionale, bersaglio della furia della comunità musulmana mondiale, senza più alcun Paese disposto a spalleggiar lo. Schierarlo «troppo tardi», invece, vor rebbe dire colpire ad attacco iraniano già avvenuto. E a che pro?

I leader israeliani, quindi, stringeran no i denti sperando che, in qualche mo do, le cose si aggiustino da sé. Magari, una volta ottenuta la Bomba, gli iraniani si comporteranno in modo «razionale»?

CATASTROFE - Ma questi ultimi sono guida ti da una logica superiore. Lanceranno i lo ro missili. E, come per il primo Olocausto, la comunità internazionale non muoverà un dito. Tutto avverrà, per Israele, in po chi minuti; non come negli anni '40, quan do il mondo stette cinque lunghi anni a tor cersi le mani senza battere ciglio. Dopo i lanci di Shihab, la comunità internaziona le manderà navi di soccorso e assistenza medica per quanti sopravviveranno alle esplosioni. Ma non attaccherà l'Iran. Qua le sarebbe il prezzo? E il tornaconto? Op tando per una controffensiva nucleare, gli Usa si alienerebbero definitivamente l'in tero mondo musulmano, esasperando e generalizzando il già acceso scontro di ci viltà. Ovviamente, senza potere riportare in vita Israele. E allora che senso avrebbe?

II secondo Olocausto, però, sarà diver so nel senso che Ahmadinejad non vedrà né toccherà concretamente gli individui di cui sogna tanto la morte. Anzi, non vi saranno scene come quella che sto per raccontarvi, riportata da Daniel Mendelsohn nel suo recente libro The Lost, A Search for Six of Six Million, in cui viene descritta la seconda Aktion dei nazisti a Bolechow, piccolo paesino della Polonia, nel settembre 1942.

«La signora Grynberg fu vittima di un episodio terribile. Gli ucraini e i te deschi, facendo irruzione nella sua casa, la trovarono che stava partorendo. A nulla valsero le lacrime e le suppliche degli astan ti: la portarono via, anco ra in vestaglia, dalla sua casa, e la trascinarono fi no alla piazza davanti al municipio. E lì... fu spinta a forza sopra un cassonet to per l'immondizia nel cortile del munici pio, e tra gli scherni e i dileggi della folla di ucraini presenti, insensibili al suo dolore, partorì. Il bambino le fu immediatamente strappato dalle braccia con tutto il cordo ne ombelicale. Fu scaraventato verso la folla, che prese a schiacciarlo coi piedi. Lei fu lasciata sola, con le ferite e i brandelli di carne sanguinanti, e così rimase per qual che ora, appoggiata a un muro, fino a che non fu portata alla stazione ferroviaria e, assieme agli altri, fatta salire su un vagone verso il campo di sterminio di Belzec».

Nel prossimo Olocausto non ci saran no episodi così strazianti. Non vedremo vittime e carnefici coperti di sangue (an che se, a giudicare dalle immagini di Hi roshima e Nagasaki, le conseguenze del le esplosioni nucleari possono essere altrettanto devastanti). Ma sarà comunque un Olocausto.