venerdì 25 agosto 2006

La "nuova" politica estera italiana

Il ministro degli esteri Massimo D’Alema farebbe bene a non dare troppo ascolto al coro adulatorio che tutti i giorni vanta la sua insuperabile intelligenza. Difatti, per quanto lucido egli sia, rischia di illudersi di poter far credere al prossimo qualsiasi cosa, per esempio che egli sia “equivicino” tra le parti in Medio Oriente. Gettare alle ortiche l’uso di questo infelice aggettivo non potrebbe che far bene. In primo luogo perché, essere equidistante tra Israele e un movimento terrorista come Hezbollah non è degno del ministro degli esteri di un paese democratico. In secondo luogo, perché neppure coloro che ripetono da mane a sera il mantra della superiore intelligenza di D’Alema possono più credere alla favola che egli sia equidistante. Per quanti sforzi egli faccia per celare i suoi sentimenti, essi spuntano da tutti i lati come un pezzo di gomma che si cerchi di comprimere in uno spazio troppo piccolo.
L’onorevole D’Alema usa respingere le critiche dicendo che è inammissibile che ogni accusa a Israele sia tacciata di antisemitismo. Ma si tratta di uno stratagemma inutile. Qui non si parla di antisemitismo. Si parla semplicemente del fatto che l’insopportazione e l’antipatia di D’Alema per Israele, la sua mancanza di obbiettività e di apertura mentale nei confronti di Israele e delle sue ragioni, esce da tutti i pori come il pezzo di gomma di cui si diceva.
Non faremo qui l’elenco delle condanne passate di D’Alema contro la politica di Israele, con termini durissimi che mostrano quanto D’Alema sia capace di indignazione morale quando vuole. Ricorderemo soprattutto un’intervista rilasciata in rete alcuni mesi fa in cui D’Alema manifestò in modo quanto mai chiaro la sua profonda antipatia per Israele e per gli Stati Uniti, parlando di superiorità dell’Europa rispetto a coloro che credono di portare la democrazia con la violenza di stato. Naturalmente, siccome D’Alema è una persona intelligente, si rese conto del ridicolo dell’affermazione e osservò che, certo l’Europa ha avuto Auschwitz, ma che “proprio per questo” aveva capito la lezione. Come si usa dire, peggio la toppa del buco.
La lista delle manifestazioni di sdegno morale di D’Alema nei confronti di Israele è tanto lunga quanto è corta quella delle critiche – per non dire delle condanne – nei confronti dei nemici di Israele. Egli ha ripetutamente accusato l’esercito israeliano di praticare il tiro al bersaglio sui civili ma non ricordiamo condanne nette della pratica degli stermini suicidi. Quando Israele si è ritirato da Gaza, sono state devastate e date alle fiamme le sinagoghe, ma non ricordiamo una condanna dell’on. D’Alema di questo gesto efferato. I palestinesi avevano l’opportunità di cominciare a creare uno stato su un territorio totalmente in mano loro, e non hanno saputo neppure creare una forza di sicurezza unificata: l’unica cosa che hanno saputo fare è organizzare dei tiri di missili Kassam entro Israele, rendendo la vita impossibile agli abitanti di Sderot. Non ricordiamo una critica dell’on. D’Alema di tale comportamento illegale e criminale. Eppure per essere davvero amico di qualcuno bisogna dirgli la verità. Non ricordiamo critiche dell’on. D’Alema nei confronti di Hezbollah e delle sue mire dichiarate e ripetute di distruzione di Israele. Non ricordiamo neppure vibrate condanne da parte dell’on. D’Alema dei propositi criminali del presidente iraniano Ahmadinejad e delle sue efferate affermazioni circa lo sterminio degli ebrei d’Europa. Al contrario, ricordiamo la sua dichiarazione circa il ruolo di potenza regionale che deve essere riconosciuto all’Iran (a “questo” Iran). E si potrebbe continuare a lungo.
Dal momento della sua nomina a ministro degli esteri, l’on D’Alema ha voluto ostentare una posizione di assoluta oggettività, fuori da ogni ideologia e moralismo, parlando – come è apparso evidente in una recente intervista a Repubblica – alla maniera di Talleyrand, criticando cioè Israele per aver commesso qualcosa di peggio di un crimine, ovvero un “errore”; e aggiungendo che i problemi si risolvono per via diplomatica e mai con la guerra. Ma per aspirare ad essere una replica di Talleyrand bisogna capire lo spirito della sua azione. Talleyrand approvò molte delle guerre di Napoleone e ne criticò altre perché erano, appunto, un “errore”; ma si guardò bene dall’aderire a un’ideologia pacifista o guerrafondaia. Quando enuncia il principio dell’assoluta inutilità, ed anzi negatività della guerra, D’Alema è agli antipodi dall’idea che un errore è peggio di un crimine: aderisce a una visione ideologica. Dire che la guerra è sempre un male (o viceversa) è pura ideologia moralistica e non ha nulla a che fare con una visione razionale dei fatti. E qui si scorge il filo rosso della continuità con il D’Alema dell’intervista in rete.
Non c’è da stupirsi allora che l’immagine del nostro ministro degli esteri come un novello Talleyrand sia esplosa come una bolla di sapone, riportando alla luce i suoi autentici sentimenti. Egli valuta la crisi israelo-libanese come se fosse una questione del rapimento di qualche soldato e di una reazione “sproporzionata” – cosa sarebbe stato proporzionato? rapire un paio di militanti Hezbollah? – e non il frutto di un disegno vastissimo dietro cui vi è l’Iran e che muove in unico quadro Siria, Hezbollah e Hamas verso l’obbiettivo della distruzione di Israele come passo decisivo per un attacco globale che va avanti da più di un decennio. Non vedere questo significa non guardare oltre la punta del naso e rinunciare a una visione geopolitica a vantaggio di un pregiudizio ideologico, basato sul solito ritornello dell’oppressione che genera reazione. Non meno falsamente oggettivo è l’insistere sul fatto che Hamas o Hezbollah (o l’integralismo iraniano) non sono classificabili sotto la rubrica “terrorismo” perché godono di un’ampia adesione di popolo, talora sancita attraverso elezioni. È persino stucchevole dover ricordare che anche i grandi movimenti totalitari europei si sono affermati attraverso elezioni e hanno goduto di ampio sostegno di popolo – e non soltanto quelli: pure le recenti dittature sudamericane godevano di un radicamento di massa – e che la democrazia non si identifica con le elezioni. Al contrario. La democrazia è anche conferimento di un potere speciale allo stato che include la negazione o limitazione dei diritti a coloro che lottano per sopprimerla: in buona sostanza, se si consente a un movimento antidemocratico di presentarsi alle elezioni la democrazia è già morta in partenza.
Non c’è quindi da stupirsi se al nostro ministro degli esteri riesce sempre facile trovare aspre parole di critica e condanna per Israele e mai per i suoi avversari, anche quando questi dichiarano il fine di volerlo distruggere. Egli va a visitare le rovine di Beirut a braccetto di un esponente Hezbollah – fatto discutibile se lo fa un uomo politico, gravissimo da parte di un ministro degli esteri – e pronunzia parole di sdegno per quanto ha visto, e che giustificherebbe a suo avviso la critica di “sproporzione” della reazione israeliana. Ma non sente l’esigenza neppure per pura diplomazia, magari soltanto di facciata, di andare a vedere i drammi dell’altra parte, provocati non come danni “collaterali” ma con l’intento deliberato e terroristico di colpire la popolazione civile e soltanto questa. D’Alema chiama la comunità internazionale alla ricostruzione del Libano, mentre Israele dovrà provvedere da sola a riparare le distruzioni provocate da un movimento terrorista e l’on D’Alema non trova una parola di sdegno per il fatto che un terzo – un terzo! – della popolazione del paese sia stata costretta a vivere per un mese nei rifugi o a emigrare per non morire sotto i missili. Invece di passeggiare per Kiriat Shmona, il ministro è volato direttamente al Cairo e ha rilasciato durissime dichiarazioni contro Israele, parlando di errore catastrofico per aver fatto la guerra. Come se una guerra non fosse stata scatenata contro Israele.
Certo, ogni critica contro la conduzione militare-diplomatica da parte del governo israeliano è più che ammissibile. La stampa e l’opinione pubblica israeliana stanno sottoponendo il proprio governo a critiche di una severità straordinaria. Ma altra cosa è la critica ideologica, la critica non per aver perseguito male una causa giusta, ma per aver commesso l’errore in sé di aver reagito a un complotto di cui vediamo le dimensioni inquietanti sempre di più ogni giorno che passa.
Pertanto, se il ministro degli esteri vuole guardare ai fatti oggettivamente e non trascinare sé stesso e il nostro paese in un’avventura disastrosa, dovrebbe tenere conto dei dati più profondi e gravi del problema. Senza risolvere questi dati – primo di tutti il disarmo di Hezbollah e la sconfitta del disegno iraniano di procedere nel piano di distruzione di Israele – la missione Onu si risolverà in qualcosa tra la farsa e la tragedia. Difatti, quel che abbiamo di fronte non è certo il trionfo del multilateralismo, ma il crearsi delle condizioni – per errori di molti, inclusi quelli del governo israeliano – per un secondo atto più drammatico del primo.
Tutte queste cose l’on. D’Alema certamente le vede, anche perché è persona intelligente. Ma non le vuol vedere perché non riesce a liberarsi dalle sue antipatie e simpatie. Egli ha iniziato la sua missione di ministro degli esteri tentando di azzerare le riserve nei suoi confronti, dicendo persino di essere un “amico” di Israele, tutt’al più un “amico che sbaglia”. Ma, alla luce di quanto sta accadendo appare evidente che l’ultima cosa che gli passa per la mente è di aver sbagliato. Ben più che pentito egli appare irriducibilmente intriso di pregiudizi nei confronti di Israele. A tal punto che viene da chiedersi se, nel suo foro interno, egli non pensi che Israele stesso sia un “errore”.

Giorgio Israel

1 commento:

GiuseppeR ha detto...

Anche io sono perfettamente d'accordo con la analisi del prof. Israel.

D'Alema sembra infatti avere una viscerale e malcelata antipatia e insofferenza verso Israele.

A volte però mi viene da pensare che il ministro possa riuscire comunque a superare i suoi pregiudizi per soddisfare la sua enorme ambizione di figurare nella Storia come un artefice di una qualche forma di pace nel medio oriente. Non certo per amore della causa del popolo d'Israele.

Altre volte, al contrario, inorridisco figurandomelo accostato, nei futuri libri di Storia, a Neville Chamberlain.